Come
tutti i grandi giochi, Mirror’s
Edge brucia in fretta. Ma d’altronde Another World lo avevamo consumato in una
bevuta di ore serrate, trent’anni fa quasi, senza mai curarci dell’incombente
finale. Un titolo come Mirror’s Edge, la cui scrittura va a coprire le dinamiche
ondulatorie della corsa in acrobazia e dei corpo a corpo definitivi, e il cui
centro icastico si identifica nella essenza del colore, ha dietro di sè un
processo creativo imponente, scientifico. Prenderemo distanza da un certo tipo
di medio-bassa utenza per potere meglio avvicinare la nuova
estetica, la nuova meccanica, la nuova percezione del movimento,
ché se si fosse trattato di un medio-sparatutto in prima persona non avremmo
visto il mondo a distanza di occhio, né determinate le sue modifiche spaziali,
in questa corsa disperata che diviene un flusso continuo di salti, capriole,
kung-fu stilizzato. In un dato qual senso, Mirror’s Edge è un postmoderno
Prince of Persia cui viene sottratta la facoltà di scherma, e sebbene manchi lo scandire del tempo limite – a questo ci pensa il time
trial – si è sollecitati dalla necessità di fuggire.
In una parola: vertiginoso. Sfondi una porta
e ignori cosa c’è oltre il bordo, se una scala, un dirupo, un agente. La “prospettiva
del runner” aiuta a orientarsi velocemente e a prendere confidenza col sistema di
controllo, incentrato sulla alternanza degli shift e comunque di naturale assimilazione. Si è
pensato di concepire un action game privo di pause, che potesse
sorprendere più nella forma registica che per la quantità di azione
suggerita dal gameplay. Si corre, si salta, si slitta, ci si arrampica, ci
si appende, ci si schianta: ogni singola movenza portata a compimento
attinge dalla precedente e si incastra nella seguente in un circolo vizioso
di pura cinestetica; durante la corsa è allora possibile applicare il sistema della
catapulta e dell’elastico sulle pareti, a potere
avventarsi con un calcio volante sul poliziotto di guardia, fargli fare una
piroetta, stordirlo e disarmarlo in una unica mossa. Malgrado che sia
necessario far fuoco sul nemico allorché lo stesso risulti in numero
soverchiante, Mirror’s Edge non incoraggia l’uso delle armi: gran parte
della avventura può risolversi col depistaggio, circumnavigando gli agenti e
squagliandosi verso una più fluida via di transito; il disorientamento,
possibile in accordo coi bruschi dissesti della telecamera, viene limitato
dalla funzione del tasto B, indicante le direttrici entro cui
procedere. Si determina situazione di rottura, capace di scuotere alla fondamenta
gli stereotipi visuali del videogioco dove si spara.
Dichiaratamente antifascista, Mirror’s Edge
assume forma in un futuro asettico, scenario di oppressione e dottrina dell’ordine. Un
complotto vorrebbe eliminare definitivamente la corrente dei Runners, cui Faith
appartiene, quindi l’evoluzione del narrato suggerisce una netta presa di posizione politica,
per una volta non capziosa trattandosi di un videogioco, e per una volta necessaria,
assumendo il buco cerebrale della progenie IGN, ed è lampante quanto colta
sa essere la virtualizzazione del reale descritta da Digital Illusions, che
si concede il lusso di istruire un modello architettonico squadrato capace
di profetizzare su questo parallelo “1984” rivestito di facebook e dinamiche
del controllo derivanti; Mirror’s Edge dice che possiede il
codice. Le risorse delle superconsole HD vengono finalmente liberate
per atti di creazione di sopra al nutrimento del polygon count,
per cui i colori realizzano un “altro” tipo di illuminazione, e tutto
dev’essere limpido, pulito, luccichevole nel qui stante tridimensionalismo che non
vuol cedere dettaglio manco nelle inquadrature ravvicinate, e che anzi
imprime la stretta fisicità delle strutture anatomiche.
Possiamo dire che l’acustica è quanto mai battente, sì. Il rumore delle
scavatrici si riproduce realistico, senti il suono della gomma
stridente delle sneakers di Faith restituire la imponderabile sensazione di
calzare un qualche cosa di nuovissimo, di appena comprato. Lisa Miskovsky
ci piace molto. Prima di Mirror’s Edge non si sapeva esattamente chi era e
invece adesso* ci hanno detto che sta in cima
alle classifiche dell’iTunes. Digital Illusions, software house che abbiamo imparato a
idolatrare grazie a
Benefactor,
torna alla grandezza di un tempo e dispensa una opera di efficacia mirabile, di quelle che
ti caratterizzano un decennio e che allo stesso tempo esplorano il ramo alternativo del
consumo vettoriale. Come ICO e
Shadow of the Colossus, Mirror’s Edge
trascende il banale intrattenimento: sarebbe opportuno immolarsi alla opera
Digital Illusions con la inesorabilità di chi è pronto a oltrepassare lo
spettro delle convenzioni.
*
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Xbox 360].