MOONSTONE: A Hard Days Knight Limited Edition di @Luca
Abiusi
Chi mai non ha agognato
di
medioevi avventori e lande e regni, alberi che si animano, trolls.
Li si è ricercati in proiezione serale, quando John Boorman realizzò
Excalibur e, anni dopo, grazie a Ron Howard. Mancava
ancora qualcosa. Ci mancava la cruda violenza delle spade che mozzano le teste,
dei drachi mangiatori che stritolano le ossa, dei cinghiali inferociti che
infilzano stomaci impalando, nel mentre il sangue schizza fuori a fontana.
Mancava il mostro gigante che schiaccia e riduce in pezzi. Orbene, la
macelleria. Ma poi arriva Mindscape, nel Novantuno, col suo Moonstone, action-RPG letteralmente passato alla storia
per manifesta mattanza e ancora adesso oggetto di culto tra i collezionisti
di anticaglie Amiga. Un titolo poderoso,
oseremmo dire, che abbastanza curiosamente riesce a diventare completo,
oltre che sadico, e a produrre un
qualcerto spessore di manovra oltre la sanguinolenza che mira a creare
l’interdizione, ed è ruolismo, umorismo nero, margine di elaboramento e
strategie, tutti assieme in passione, su Amiga 500 montante il megabyte.
Moonstone è un tracciato. Si opziona il cavaliere, tra quattro,
e si comincia la crociata contro le forze del male, nel pellegrinaggio tra
villaggi, taverne, per quanto il fulcro del gameplay debba ritornare alla
battaglia contro cavalieri nostri pari e creature, al fine di guadagnare l’oro necessario al proseguimento. Le contee entro cui
la contesa avrà luogo sono quattro: Northern Wastelands,
The Misty Moors,
Great Forest e
Wetlands, quindi in ognuna di esse
bisognerà affrontare e completare un numero di missioni all’arma bianca
sicché, in caso si restasse vivi, venga consegnata la chiave di accesso agli stage
prossimi. In effetti Moonstone è più un
picchiaduro classico che un RPG, dato che gli oggetti della gestazione risultano di contorno,
stazionando nella compravendita di armi e dunque nel risanamento della
propria energia. A marcare il territorio del ruolismo è semmai il fattore
“evolutivo”, dacché il cavaliere inizia con
l’armatura in legno, a brandire una spada che sembra forgiata a misura di
nano, e senza soldi, per poi formarsi e diventare, vittoria dopo
vittoria, un autentico maestro d’arme. Il sistema di combattimento è assai completo. Le combinazioni concesse
si realizzano in numero sufficiente, se si considerano gli
standard del periodo, e tra fendenti, sciabolate laterali e schiacciatesta vi sarà di che
appagare il fabbisogno giornaliero di ultraviolenza. Previsto il gioco tra due giocatori umani,
ed è grasso, pieno di fluido rosso e brandelli di carne.
Del resto se la perlustrazione dovesse
scaturire a noia (ma non dovrebbe) non vi è che da prelevare il compagno e
approfondire la tenzone, e non vi sarà tempo limite: vince chi resta in
piedi. Altro che Mortal Kombat. Qui lo schermo si
conquista la truculenza al primo affondo come antipasto del wagneriano atto
del dipartire, con la carcassa che anche mutilata continua a inscenare lo
zampillare, e tutto è sangue. Si potrà decapitare, tagliare in due
e ancora perforare stomaci con più fendenti consecutivi fino a che
l’opponente non s’accasci a pancia in giù a cagionare agghiaccianti le fuoriuscite arteriose
a spruzzi. Questa, di grazia, è la più esplicita figurazione gore mai tentata
nello spettro del videogioco bidimensionale – e forse anche tridimensionale
– per attestato scavalcamento dello splatter immaginabile, per cui si esprime
letale il blocco di animazioni verosimili, dentro ai disegni di mirabile
fantasia e di cavalleria, le foreste magiche di sovrani dispensatori di
guerre. La tecnica è possente. Risplendono i colori e brillano gli sfondi
campestri e silvestri e ancora rupestri, per rimarcare il grado di
manifattura di una Mindscape che si immola al personal computer e che vuole
intensificare il dettaglio delle grafiche perché queste si rivestano allegre
dei rossi, la bellezza che si frappone alla brutalità dello squartamento
affinché allora si affermi l’idea grottesca del videogioco di avventure
medievali, quando per modello di rappresentanza si aveva l’Arturo di Capcom,
che al massimo perdeva la corazza. Adesso invece si perdono gli arti. Il
suono sembra fare il suo dovere. Rendono, i campionamenti. I metalli. Poi vi
è inoltre il modulo d’introduzione del rito di Stonehenge, i lampi e i tuoni
riprodotti in virtù, e i cori. Odissea che merita, che esige manipolazione
col suo inibire il salvataggio, la vecchia scuola della consumazione
continuativa secondo cui bisogna cominciare e finire nell’arco di un giorno.
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