Ricorrere
a Maria Whittaker, per la copertina di Barbarian, si rivelò una strategia
vincente. Del resto la sua quarta misura abbondante otteneva seguito anche fuori
dall’Inghilterra, e si profittò per cui a ribadire sul Commodore 64 questo
stereotipo maschilista et nichilista di carnosità che la saga di Conan Il
Barbaro aveva concorso a
sdoganare presso gli interlocutori di cose fantasy; fu tra i primi titoli europei a fare uso di modelli umani, e
benché le seminudità della Whittaker avessero in effetti scandalizzato i
membri (evidentemente pendenti) del partito conservatore, a portare
contestazione furono invero i contenuti gore, i fiotti di sangue. Al
centro del gameplay sta la violenza. Si deve combattere e uccidere con tanto
di spada, e possibilmente decapitare, col fluido rosso ben visibile a
schermo come mai lo era stato nel settore del videogioco; Barbarian, pur
coetaneo alla rivoluzione del beat ’em up arcade realizzata da Capcom
per mezzo di Street Fighter, introduce, a fine Ottanta, l’idea viscerale
del picchiaduro a incontri.
Palace vuole che il combattimento barbarico
sia disposto alla tecnica. Inventa quindi virtuosa il sistema di controllo di
trasformazione del fendente, che anche col pulsante singolo stia
evidentemente a incidere sulle strategie; la parata, elemento grossomodo trascurato
(e trascurabile) nei precedenti beat ’em
up del sessantaquattro, è colpo che adesso si carica di variare il
tempo del gameplay pur riferendo lo schema della complicanza, perché la
performazione rispetti i requisiti del sincronismo. Vi è altresì il calcio.
Mossa che serve, attaccati all’avversario, nel mentre questi si attende la
spazzata a volteggio, e invece ecco il diversivo; breve sottrazione di
energia e si può continuare con la tattica dello sfiancamento, attivando via
diagonale bassa l’ancoraggio alle caviglie che cagioni la caduta di spalle,
per tranciare eventuali ritorni di spada, e poi in sicurezza agire con un
attacco verticale spaccacranio, utile a minare le convinzioni
dell’altro. In verità, il duello può aver termine in mezzo secondo, purché
si centri il taglio della testa, in virata: mossa lenta, prevedibile nonché
eludibile, ma che quando entra determina intero il senso dell’opera.
Barbarian si pianta sulle terre, creando
volume; dispone talmente bene degli otto bit che il cimmero diventa una
icona di muscolature, sostituto in pixel di sì tanto Schwarznegger che per
nulla è ridimensionato in prestanza, nel movimento frame per frame,
prossimi a scenari che mutano lo stile e di colore nella foresta, dopo i
tramonti a valle, fino a che le segrete dove il re malvagio osserva non
diventano il luogo della resa dei conti. Steve Brown, già designer di
Cauldron e
Cauldron II,
lavora col pastello. Ricava le atmosfere dei racconti del nord. Consegna
la sequenza del goblin che scalcia la testa e si trascina via il cadavere,
alla eco delle sue risa. E poi, beh, non può che irrompere il tamburo
pesante di Richard Joseph, per fare che il videogioco diventi millenario. E
può suonare ruvido il canto delle gesta eroiche, barbariche di trombe
scordate come di pietre che franano dalla montagna, come montagna che si
spacca al martello dell’unno con l’elmo con le corna. Amiga e ST se le
sarebbero ascoltate di notte le violente sinfonie, e si può dire
che l’edizione Commodore 64 sia da considerarsi centrale fra le rimanenti altre, che
evidentemente portavano il limite della conversione del SID; Barbarian sta
avanti, nel 1987. Il suo duello all’ultimo sangue avrebbe fatto scuola,
ancora che
sarebbe rimasto unico entro un genere di combattimento con arma bianca, per questo
teatro di sadismo di alta virtù, arte del gesto e del ferro.