E
così nel 1987 il videogioco Buggy Boy del Commodore 64 è una cassetta da
sbandierare ai quattro venti. E ai quattro storpi. Che erano i quattro storpi –
li chiamavano così, i quattro storpi, in classe, nomignolo che si erano dati da
soli ma che apparentemente non concerneva disabilità alcuna se non a livello di
un sottile impedimento di grado cerebrale distribuito sui nostri in modo
omogeneo – che portavano per corrente attributo il diffidare da tutto quel che
gli si contasse, anche dopoché gli si fossero sottoposte a supporto prove
concrete inconfutabili come potevano risultare i brandelli di tessuto
insanguinati col test del luminol al seguito, i certificati di morte col timbro, le fotografie
di professoresse di musica seminude che si capiva che non erano ritoccate al
photoshop, poiché il photoshop non esisteva ancora eppure loro dicevano no. Al
Nostro cazzo non rimaneva quindi che legarli col nastro con l’appoggio di un
braccio destro sul posto eletto, uno motivato che non chiedeva altro, e
trascinarli fino alla stanza buia dove avevamo messo il Commodore 64 col monitor
ai fosfori verdi, perché il Nostro babbo diceva che quello a colori ti faceva
fuoriuscire gli occhi dalle orbite a mò di quella cosa che vendevano in
contrassegno sugli inserti del Tele Sette che veniva spacciata per visore a
raggi x; e allora bagnati da tanta fluenza e velocità, oltreché da intermittenti
schizzi di sperma lì prodotti dal Nostro cazzo per suggere a un inderogabile
impulso bondage, i quattro dovettero ammettere, pur con riluttanza, che quel Buggy
Boy era forte. Anche se era verde.
Ora non giriamoci intorno, la versione Amiga
è meglio. Falla partire in NTSC col Whdload e vedi come fila ma non
significa che codesto adattamento a 8 bit dei fratelli Thomas sia da
rubricare a conversione minore, affatto, ché il corsistico è più fluido
delle stesse versioni a 16 bit e non manca un pixel sul bordo pista, quando
arrivano le rampe e i bonus del pallone, o le dune buggy impazzite che
cadono in acqua e si schiantano, e che sono appunto progettate per rompere i
coglioni. Lo spostamento digitale è preciso, ma ci guarderemo bene dal
ricondurlo allo sterzo analogico del
coin-op, che era un altro universo. Bisogna invece considerare il
microcosmo: sul Commodore 64 potevi difficilmente pretendere di meglio. Sì,
verso il 1990 Probe avrebbe sfornato qualcosa di corsisticamente
comparabile. Ma ora stiamo ancora negli ’80, dal tabaccaio vendono le
fionde. A Natale, dal giornalaio, si comprano i “pirata” a 500 Lire l’uno,
degli ordigni nucleari che se li fai brillare sullo sterrato dietro casa trovi
il petrolio.
La qualità della sfida. Ancorché le piste non
siano tantissime e il track design tenda presto a omologarsi verso quelle
due o tre varianti standard il Buggy Boy diverte. I tronchi ti spediscono in
orbita come nell’arcade. E si deve calcolare bene il tempo di ricaduta perché
nel rimbalzo non si può cambiare direzione, per cui se dopo si trova un muro o
un corso d’acqua muori. Ma tanto poi il sistema ti riporta in vita. Sì, la cosa
del trial and error. Una volta si usava fare questo negli ambienti dove
c’erano i videogiochi. Ed era questo che rendeva i giochini così avvincenti,
perché ti vedevi costretto a dover imparare, a ricordare, a fare
dell’automiglioramento una strategia esistenziale da esportare sui banchi di
scuola, così che quando ti chiamassero in causa circa argomenti di scienze o matematica
si potesse attingere a dieci o più buste colorate, tanto se poi sbagliavi potevi
ricominciare dall’anno scolastico che era appena terminato perché il tempo è un
videogioco su cassetta, nel 1987; si riavvolge a comando fino alle 17:30, lì
dove incomincia la routine dei cartoni animati giapponesi da guardare davanti ai
Tegolini del Mulino Bianco e un bicchiere di latte, assieme al fratello, prima
di una sessione al Commodore 64 i cui esponenti centrali risultassero essere
nulla di estraneo da un Buggy Boy e un World Class Leaderboard. Che erano forti.
Anche se erano verdi.