Anno
2066, spazio profondissimo. L’esperimento genetico deve essere naufragato tra
membra di equipaggi sparse qua e là sul Prometheus, da mesi alla deriva. La
missione è colpire gli alieni e tornarsene a casa: poi succede di trarre in salvo
qualche sopravvissuto en passant, oppure no. Dipende dalle azioni: l’attitudine di
Project Firestart di affinare la tensione su finali atterrenti o fausti è
survival horror ben prima che il genere venisse impiantato a Raccoon City, o sulle navi stellari di
Dead Space.
Jeff Tunnell si concentra sui corridoi
pressurizzati. Rivela il terrore di chi si sente osservato e sa che l’orrore può
celarsi dietro brecce, negli ascensori, sotto le luci bianche di 2001: Odissea
Nello Spazio. Con lo stratagemma del diario di bordo viene a risolversi il contesto,
lentamente, del personale medico che soccombe alle neointelligenze; allora dunque
mi presento: sono un regista professionista e vorrei portarmi dietro una
cinepresa Sankyo Macro Focus Super MF 303. Mi piacerebbe scodomdare Asimov,
prelevare qualcosa da Alien, acquisire frazioni di
Alien Syndrome sulla
posizione arcade e ottenere Dio volendo un sofisticatissimo tributo alla cultura
fantascientifica degli anni ’80.
Project Firestart dice che il nero deve
illuminarsi di grafiche-acciaio. Sicché l’esplorabile diviene rappreso, e succede di questa nave di grandezza e
montacarichi, elevatori per l’ignoto, (s)colorature di grigi a
contrasto nell’antro, e già di sfarzo traverso le vedute a vetro che mostrano i
bracci al titanio, palchi per zone di controllo di energie a gravitazione,
risorse di sopravvivenza; le atmosfere rendono squarci di cinema d’avanguardia
per inquadratura di sdoppiamento, fermo immagine e poi subito al lato opposto
del Prometheus, a descrivere quel che vi accade in tempo reale e appesantire
l’incubo di una letteratura di mostri e luoghi dove nessuno vorrebbe stare. Vibrante,
la sequenza di attracco, quando si intercede all’istinto; il disegno
strutturale richiama il chiuso del perlustramento, che è l’inizio di una
scatenazione di omicidi e suicidi tipo a farti saltare sulla sedia, come si stesse
lì veramete a cercare di sopravviere al distante scuro disumano.
Non l’aborto molecolare coi tentacoli. Ma ancora il vuoto
entro cui ci si muove. Il claustro del labirinto carente di antropomorfi senzienti,
e sembra che lo avverti, il silenzio, mentre che percorri camminamenti larghi un pugno di pixel, e pure il suono che si risparmia di
effetti e commenti è presente, funziona talmente bene che se vi fosse stato
margine per musiche di sfondo si sarebbe sicuramente compromessa la dimensione dello
spavento.
Il refrain di avventura spaziale a
indagine rettangolare a controllo diretto sul personaggio è parecchio insolito
nei territori del Commodore 64. O meglio, almeno per altre nove, dieci lune non
vi sarebbe stato videogioco che rendesse azione e misurazione su di un uguale
suffragio narrativo. Jeff Tunnell si getta nella iperscienza borderline entro
situazioni di sfrenato sperimentalismo, e vuole affermare la singolarità delle fisime
futuriste, opprimenti, rispetto a una opera che potesse guardare lontanissimo, ben oltre
la linea del “gameplay e basta” in avanti, verso la riabilitazione delle
retroguardie tecnocrati ammuffite di ghetti e oggetti, record mondiali, brufoli.
Sessantaquatto kbyte sono quanto occorre al riclassamento di una scuola di
preconfezioni, frettolosi tie-in marcati Ocean o almeno anche occasionale
consumo giovanile da bar; da gregari, i designer diventano or ora manipolatori di folle atti a imporre volontà supreme: «tu sei cippa lippa e
devi fare quello che ti dico di fare». Orbene si depone il datassette tra gli
scarti di Silicon Valley e si elegge il floppy disk a
salvaguardia dei tempi di caricamento. E della qualità della vita. La conversione esterna
viene messa al bando,
si sarebbe se no andati sul pasticcio degli adattamenti di terze parti diplomate in
basic, le quali con entusiasmo e punti esclamativi avrebbero sicuramente finito col
danneggiare le rivoluzionarie isometrie di John Burton e Darek Lukaszuk, dei quali
è
celebre il detto “se non hai il Commodore 64, compratene uno”.