ARKANOID di @Luca
Abiusi
Nato come evoluzione
fantascientifica del Breakout della Atari, Arkanoid conquista le
immagini del videogioco futurista e segna la sua generazione per
mano di questo suo disco analogico che nel 1986 può fare scuola, determinare il culto
per il roteame lì
al Camel Camping Club dove il videogioco
stava di fianco a Buggy Boy, che teneva i
ponti, i fiumi e le gallerie, non fosse che il Nostro primo istinto fu che
dovevamo con una certa urgenza manipolare quell’altro incredibile cabinato che
teneva il catodico in verticale, in quanto quei mattoncini ci facevano venire
gli occhi a forma di cuoricino, quelli che si vedevano dentro ai cartoni animati
giapponesi che trasmettevano su Bim Bum Bam. Taito mira a questo. Anela a una
visione di intrattenimento che si voti all’innamoramento, e
rivendica altresì il fascinamento provocato dalla perfezione
dell’accostamento, del contrasto definitivo seppure in senso obiettivo Arkanoid non è
tutta questa gran complessità di videogioco. Ma è anche un qualcosa che utilizza
in modo facoltoso l’hardware del modesto Z80 su cui si appresta a
funzionare, e
sembra bellissimo, quando collide minimale per poi divenire
universale, con la barra a coprire in orizzontale, e a murare le superlinee
di una pallina che accelera e non ne vuol sapere di rallentare.
Allora vedi la demo e immagini di spaccare.
Pensi «beh, è sufficiente che seguo le traiettorie e il più è fatto, non ci
vedo niente di particolare sì ma dov’è il joystick». In verità, una volta
che hai inserito il gettone realizzi che il ritmo è dannatamente sostenuto,
che la biglia viene giù peggio di un meteorite e che se non raccogli almeno
una di quelle caramelle colorate con sovrascritte le lettere puoi
anche dimenticarti di superare incolume gli schermi uno e due. È dunque
opportuno acquisire il bonus occasionalmente largito, per sfruttarne al
meglio le facoltà sul lato estendibile – vedi la E, che raddoppia in
larghezza il Vaus ad aumentare e non di poco le possibilità d’impatto – e
sul fronte dello sparo, grazie alla L, con cui si ottiene un doppio
laser capace di buttare giù tutto quanto. Taito si immola ai tempi e alle cadenze della
velocizzazione progressiva. Al che il giocatore deve pronarsi all’insostenibile dinamismo di
biglie gonfiate a steroidi, che allora quando che sbattono sugli spigoli dei mattoni
indistruttibili, quelli di colore grigio brillante, cominciano a macinare pixel
finendo in picchiata verso il Nostro spazio di interazione, e magari, nel
mentre, vedi intromettersi gli esagoni, quelli irritanti che si mettono
a danzare davanti al Vaus e a modificare la direttrice della pallina proprio
all’ultimo, nella circostanza in cui il tempo di reazione neuronico
viene meno e non rimane che dipartire.
L’iridescenza di Arkanoid – アルカノイド Arukanoido – è anche acustica se ha corso
la sincronicità fra occhio e amplificatore nella confusione della sala
giochi, il cui gestore non si fa mancare il casinismo dei flipper di Star
Wars o Star Trek, sì che sia conveniente chiedere a gran voce l’abbassamento
del volume, un offuscamento dei neon verdi e per favore si spengino i fumi
di quelle MS catramose che c’è gente che sta lavorando di rotelle e ha testé
ora adesso appena preso il bonus della moltiplicazione delle palline. Lo
stato di concentrazione in assegno alla barbarissima Taito può essere
ipnotico. Si suggerisce di accentrare i tormenti della partita di calcetto
di domani l’altro sulle righe disegnate dalla sfera, forme geometriche
incostanti che si attraversano a scheggia ignave dello stress arrecato al
terrestre trangugiante termos di caffè Paulista, ridotto a larva umana per
calcolare le rette di questo stramaledettissimo oggetto di forma sferica che
se mai si incastrasse nelle intercapedini del livello otto ritorna a regime
di Mach 3, e in quell’istante si baratterebbe l’anima con uno dei quei coni
di cartone della carta igienica che vendono in cartoleria con dentro le cose
più improbabili tipo formula della fissione nucleare che attrezzi il Vaus
con due testate nucleari capaci di ripulire la parete in un niente. Ce ne
vuole a divellere il trentatreesimo quadro. La sagoma moai spara centri
sicuri dalla dentiera cannone negando all’abietto la possibilità di
continuare. Divertente. Costui ha trascorso l’intera estate a martirizzarsi
le budella, dilapidando accanito il sacchetto di gettoni buscato dallo
scassinamento del cabinet di Buggy Boy quando il vecchietto si voltava a
trastullarsi sulle quindicenni di passaggio che, infine, a un passo dal
traguardo, si rende conto di non avere alcuna possibilità di vittoria.
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