POLE POSITION di @Andrea
Chirichelli
Nel 1982 uscirono in sala giochi
due titoli destinati a rivoluzionare per sempre il mondo delle simulazioni corsistiche: Turbo,
prodotto dalla Sega, e Pole Position, sviluppato da Namco e distribuito
in Occidente da Atari. La principale differenza tra i due consisteva nellapproccio
allesperienza di gioco: spudoratamente arcade in un caso, leggermente più
simulativo nellaltro. Mentre in Turbo la corsa era vista dallalto con un
inquadratura molto arretrata rispetto alla propria vettura, che era spesso centrata in
mezzo allo schermo e dava limpressione di rimanere ferma mentre gli elementi del
paesaggio le scorrevano incontro, Pole Position proponeva una immersiva visuale di poco
rialzata rispetto allasfalto che, incredibile dictu, permetteva persino di
intravedere il casco del pilota. Limpronta arcade del titolo Sega era esaltata dal
dover superare un certo numero di macchine in determinato lasso di tempo, mentre Namco
offriva per la prima volta al giocatore la possibilità di misurarsi con un vero circuito
e con un tempo di qualificazione da non superare, con un inedito impianto simulativo che
ci faceva accedere alla corsa vera e propria.
Il limite di 73 secondi rappresentò ai tempi una chiave di
volta, un pass-partout per entrare nel vivo di una competizione che, grazie alla
sofisticata grafica e alla notevole velocità con cui il tracciato scorreva sotto i
pneumatici, risultava quanto di più simile ad una vera corsa di Formula Uno potesse
ottenersi con le limitate capacità grafico-sonore delle schede madri del tempo. Come
nelle vere gare il punto di partenza nella griglia era molto importante e il partire
davanti, o meglio in Pole Position, permetteva di poter raggiungere con maggior scioltezza
quelli che erano gli obiettivi extra posti dal gioco, primo tra tutti il famoso
“extended play” che permetteva di dilatare la durata della partita. La grafica
del gioco era rimarchevole ed in particolare la pista brillava per un notevole livello di
dettaglio: i videogiocatori potevano finalmente sfruttare i cordoli, evitare i cartelli ai
lati della pista, lanciarsi in sorpassi mozzafiato ai danni di vetture dalla scarsissima
intelligenza artificiale ma forse proprio per questo ostiche e rognose da lasciarsi alle
spalle. Lunica nota stonata, sotto questo punto di vista, era un fondale che
consisteva solo di poche e sparute nuvolette e montagne in lontananza.
Avere un vero volante in mano e ascoltare un rombo di
motore credibile aumentavano lo stato di salivazione e la smania di introdurre gettoni nel
cabinato. Il tracciato, unico ed immutabile offerto dal gioco era il mitico Fuji Speedway
che offriva una discreta varietà di azioni performabili agli amanti della guida tecnica,
grazie alle numerose curve e alla struttura delle stesse, che richiedevano repentini cambi
di marce e controsterzate. Non va inoltre dimenticato che, in quei tempi, appariva sugli
schermi televisivi nostrani una delle pochissime serie animate ambientate nel mondo della
Formula 1 e anch’esso di origine nipponica: Grand Prix. Adesso tutti gli appassionati
della serie avevano lopportunità di immedesimarsi nel mitico Takaya
Todoroki in un videogioco che avesse una parvenza di realismo. Pole Position fu
un successo strepitoso per Namco e quindi per Atari, che ovviamente propose conversioni
per le proprie console e in seguito per tutti i sistemi di gioco casalinghi. Oggi
fatalmente superato, il gioco rappresentò un passo importante per la famiglia dei giochi
di guida e, a ben guardare, tutti i classici che seguirono, da Pit Stop a Ferrari Formula
One, dovettero qualcosa al primo, grande titolo corsistico del mercato arcade.
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