BORDER DOWN Limited Edition di @Luca
Abiusi
Con
Border Down si rimane sulla defunta spirale a
garanzia del fatto che il Giappone è bello. Del resto una cosa come
Sapphire avveniva a Novantacinque inoltrato quando sul mercato già ci stavano Saturn
e PlayStation, e anche se per il videogioco in esame si è operato un semplice
port, che deve essere realisticamente costato quanto un gettone del pachinko viste le rispondenze
tra la scheda Naomi e il Dreamcast, il GD-Rom rivela una modalità esclusiva,
una specie di revisione appositamente pensata per il compiacimento degli esseri umani
che s’erano in precedenza strofinati sul coin-op. Quest’ultimo era stato introdotto
intorno al 2003 in mezzo all’indifferenza prima di venire in seguito visto,
e riscuotere
consenso. Altrimenti non ci spiegheremmo la Limited Edition del Dreamcast, che è
la versione che si andrà a trattare sebbene che poi non si rilevino differenze
rispetto all’edizione regolare se non per il Compact Disc della colonna sonora.
Si tratta di uno sparatutto a scrolling orizzontale di concezione classica
apparentemente programmato giusto e solo per le utenze aventi passione verso il
genere. Ma lo sparatutto colleziona tuttavia tecniche
di attacco che risultano indubbiamente innovatrici.
Con questo suo ultimo attrezzo in ferro G.Rev
percorre la multiversalità creando il border del titolo quale
sostenitore di meccaniche che destabilizzano, che realizzano il nuovo
sistema di mappatura del quadro. Sicché si opziona gradazioni di color verde,
giallo e rosso a conseguire lo stato di
conservazione della navetta, alla quale, per singola vita perduta, viene assegnato il border
di livello inferiore: se il green border definisce l’assetto
iniziale, il red
persegue gli estremi, con il grado di difficoltà che si eleva a potenza.
Praticamente, anziché fare ausilio del check point, G.Rev opera il classamento del
gameplay e la conseguente modificazione dei suoi pattern, fino per cui a
determinare la variazione della traccia e della stessa struttura grafica
degli “stage”. L’accumulo dei punti accade in modo
altrettanto radicale in sede di attacco al guardiano, vista la necessità di completare
una fase di sparo a cronometro, lì dove il conteggio segue la pratica dello scomponimento
a blocchi, un po’ come accadeva in Radiant Silvergun, e verrà opportuno di
espletare entro lo zero del countdown, oltre il quale si subisce la
variabile dell’autodistruzione. Se ne deduce che a meno di non volersi mostrare al Boss deprivi di
fuochi sia atto quantomeno dovuto di attuare la conservazione degli arsenali, dimodoché
il fascio primario venga riversato a culminazione, quando davvero serve, ché non puoi
metterti a fare il megalomane al primo schermo.
Si rileva l’utilizzo di tre pulsanti fondamentali: lo sparo
continuo, lo sparo a ricerca e il compensatore di velocità. Non è
Thunder Force,
sia chiaro. Le dinamiche divergono. Poiché a divergere sono per l’appunto le tecniche di
attacco.
Qui c’è questo raggio laser frontale che quando attivato risucchia la barra di latenza a
deputazione e sancisce la pesante scrematura della potenza di fuoco generale. Si ritorna
alla questione del risparmio tattico di cui sopra, benché il margine di ultimabilità si
mantenga accettabile pure in assetto di emergenza. Tutta questa marmaglia è visualizzata a
mezzo di grafiche tridimensionali ad alta risoluzione tendenti al fantascientifico, con
gli scenari fatti di lamiere, i grattacieli infiniti, i cieli color ruggine, le
superstrade sospese e i meccanismi futuristici elaborati. Il dettaglio è estremo. Gli effetti speciali assoluti, luminosi, rotatori. Una realizzazione estetica
degna del periodo migliore del Dreamcast che impartisce lezioni alle sopravvissute console
a 128 bit, che Gradius V escluso non possono vantare materiale spaziale orizzontale di
uguale caratura. Bisogna parlare del suono. Di “Girl of Power” e “Bye-Bye Mars”, che quando ti
entrano in testa non vi fuoriescono per settimane. L’orchestra si afferma su interessanti
frequenze di spaziatura techno, tra scorciatoie d’influenza
teutonica e qualcos’altro di più giapponese, e con
naturale disinvoltura sa esplodere attraverso gli eventuali amplificatori
attaccati alle estremità audio della console. Il CD con su incisa la “ost” acquista invero di significato
anche al di fuori del
gameplay, stante un certo numero di tracce non udibili durante la guerra
spaziale e
tuttavia, se codesto Border Down convince non è per i suoni
né in funzione delle sue rimarchevoli grafiche, ma bensì in concorso della
sua riuscita diversità.
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