Perché
a noi piace la violenza. «Beh a chi non piace?» direte, oppure «Ciò è indecente!
pensate ai bambini malati» direte, e in entrambi i casi ci si lasci dubitare
delle capacità di apprendimento dell’essere umano, no, umanoide che spara con
gli amici tramite first person shooter presi in saldo su Steam, con
riferimenti culturali tipo la simpatica simpatia di Castellano e Pipolo, quello
che ha a cuore il diritto alla vita e non ha niente contro lo straniero e
l’omosessuale ma sarebbe meglio non averceli troppo vicini. Noi non facciamo
distinzioni di razza, siamo per la carneficina generalizzata di bianchi negri
ebrei maestri Mazza, madri Terese cani ritardati ricchi e poveri. Felicità. È
sparare a un bambino col fucilino la felicità. Così che il distinto signore al
festival del cinema si alzi inveendo con accento veneto: «xe una vergogna!».
E dunque Hotline Miami: ricevo una chiamata per
fare il dj a una serata, esco di casa, entro in discoteca con un mitra e ammazzo
tutti; non sono necessarie motivazioni esplicite né tantomeno implicite per le
azioni compiute, è il brivido dell’amoralità, dell’impersonare il mostro – E.B.
dice il grassone con mouse e tastiera, Evviva Breivik, Essere Breivik – ma tal
fascinazione invero è sì un aspetto della questione, ma non quello cruciale, chè
limitarsi a questo è dodicenne, si finisce per omettere che il biondino è
leggermente reazionario e di certo si allenava all’headshot con Donne Moderne e
Black Cocks, mentre il pregio maggiore del titolo di Dennaton Games, ciò che fa
emergere lo scarto fra realtà interiore ed esteriore, in effetti quello che
dovrebbe fare ogni opera d’ingegno degna di tal nome, sta nel sapore surreale,
quella patina allucinata, drogata che lo pervade e si insinua nella testa di chi
gioca, lo fa stare in alto nelle scene di raccordo e bestialmente sovraeccitato
nelle fasi di gameplay. «Ma a pf.it vi drogate? No... perché non vedo altra
spiegazione a recensioni di questo tipo.» Sì, Hotline Miami è droga, è una
pasticca di speedball, una siringa di erba di quelle che quando te la fai muori
subito e poi vai all’inferno, un posto dall’aspetto di edificio dove da dietro
l’angolo spunta fuori un teppista che ti fa fuori con un tubo di ferro o un
fucile a pompa e ti ritrovi di nuovo lì, ancora e ancora, finché non sei tu ad
aver fatto fuori tutti, e allora puoi tornare fuori. Gold Experience Requiem
direbbe Araki. Doppelgänger direbbero Cocco e Shinya. Don’t be afraid to die
dicono gli sviluppatori.
Il merito di tutto ciò è nell’estetica, nella
violenza grafica di arti mozzati e torsi tranciati e colli strangolati e teste
spaccate, sangue ovunque e vomito e piscio in forma di pixel anni ’80 e colori
anni ’80 inquadrati in visuale top-down, è negli intermezzi con sibillini
pupazzi antropomorfi dalla testa di animale, ed è ancor più forse nelle eccelse
musiche: dal tema del menu condotto su cullanti sonorità hawaiane a quello
dell’appartamento con melodia orientaleggiante abbinata a paludosi ritmi e
distorsioni, fino ai martellanti, adrenalinici pezzi electro dei massacri, è
un’orgia auditiva di psichedelia anfetaminlisergica che di certo infastidirà i
delicati padiglioni di giocatori di ruolo avvezzi a banali ost epiche-pacchiane,
e noi non si può che gradire. E per tutte le batuffalene, non si trascuri il
gameplay; crea dipendenza, dà soddisfazione offendere con questa grande varietà
di strumenti, dalle armi da fuoco alla lattina di birra, dal martello allo
shuriken alla mannaia e chi più ne ha più ne metta, e il fattaccio è che il
fattaccio avviene in frazioni di secondo nelle quali o si uccide o si muore: è
necessaria una pianificazione preliminare, fornendoci la visione dall’alto il
vantaggio logistico dell’osservare i movimenti dei nemici, stupidi sì ma veloci
e brutali una volta allertati, per poi scatenare la rapida azione risolutiva
come meglio si crede. Le molteplici possibilità di approccio esaltano la
fantasia e l’istinto da killer assecondando l’indole del giocatore, il quale ha
libero arbitrio nell’omicidio; aspettare dietro un angolo armato di coltello o
mazza da baseball, sfondare una porta sparando all’impazzata, affacciarsi da un
corridoio per farsi vedere e inseguire, usare un uzi rumorosamente premendo il
grilletto piuttosto che silenziosamente, lanciandolo in faccia al bruto, farli
fuori faccia a faccia uno per uno o alle spalle quattro in una volta, sono tutte
ipotesi percorribili e combinabili; inoltre abbiamo le maschere che donano
un’abilità speciale ad ampliare ancor di più il ventaglio delle scelte a
disposizione, seppur c’è da notare che alcune di queste sbilancino
eccessivamente la sfida a nostro vantaggio, ma sono dettagli. Certo può
succedere che in mezzo alla mattanza, con la bava alla bocca, il gioco,
piuttosto buggato, crashi tristemente, ma sono dettagli anche questi, con tutta
probabilità risolti con la nuova patch. Quel che conta è il risultato finale,
che come non avrete capito è una allucinata gioia armata.