Verosimilmente,
il movimento tracimò da una manovra di collaborazione con gli studi Disney e da
un seguente, intensivo utilizzo dell’animazione in rotoscope, che dovette
tradursi in un ricco procedimento di ricopiatura dei fotogrammi provenienti dal
lungometraggio omonimo: il videogioco si concentra sulla zona visuale
sacrificando l’ossatura, e la scrittura per cui non si smuove dalle teorie del
run and jump a tre tasti – uno adibito al salto, uno per la sciabolata e
l’altro per scagliare mele – sì che l’elemento che più interessa è la
personalità del protagonista in vista del fatto che Aladino è vivo, si muove
così fluidamente da sembrare munito di un suo arbitrio di un suo status estraneo
al contesto siliceo; lo si vede zompare, arrampicarsi sulle funi, alzare e
abbassare lo sguardo, fermarsi di colpo e poi guardarsi intorno con sospetto. Un
monumento alla deambulazione in dueddì che
David Perry inserisce dentro aree di
supporto, al parallasse e verosimili. E puranche nei limiti del raster in
bidimensione, il riadattamento dei palazzi di Akraba fa di un millimetro appena
rimpiangere le grafiche del film.
Aladdin è IL tie-in del Mega Drive. Si dovrà
in seguito discutere del suo coefficiente di sfida medio-basso chiaramente
pensato per una utenza di preadolescenti, e ciò malgrado la variante di grado hard attivabile dal menu finisce col trasportare le
quasi-intelligenze nemiche su interessanti binari di empatia; inutile dire
che il carattere centrale del programma risieda altrove. Inutile ribadire
che accampi sulla volontà di manovrare non tanto sull’intrattenimento, che vien da sè
nella fase del salto,
quanto sull’oggetto prismatico, su quell’insieme di pixel che irradia di
coscienza
Aladino, il quale non sta mai fermo. Ché se molli il joypad per due secondi afferra una
mela e si mette a fare il giocoliere. Perry guarda a
Flashback e
realizza che prima del gameplay, prima del level design, prima della
schermaglia coi
nemici vi è da sistemare la faccenda del protagonista istrionico; una
volta che questi è diventato mattatore e centro dell’universo si potrà allora con la
dovuta calma iniziare a inserire i pezzi mancanti, chessò, la struttura dei livelli,
la posizione degli sprite il numero dei colori, la sistemazione dei check
point, e si potrebbe considerare di introdurre un sottogioco nel quale
impersonare la
scimmia amica, oppure disporre dei chioschi tipo “tenta la fortuna” per
moltiplicare
vite e punteggi ma sempre a patto di non alterare questo schema semplice
semplice, che deve sempre stare dietro il dinamismo di Aladino, centro del
gioco, fulcro del gioco «e dimenticatevi il resto: come vi ho già detto,
almeno finché i principi di sottolineatura dell’ego virtuale resteranno
intatti la ripetizione della manovra non sarà un problema, e non graverà sul
nostro obiettivo, che è quello di stupire».
Per Aladdin si deve parlare di trastullamento scenografico. Dunque il divertissement arriva dalle invenzioni
estetiche più che dalle variazioni, pur presenti, sulle logiche del platform game
anni Novanta. Generalmente si apprezza l’umorismo dei cammelli dormienti da
commutare a trampolino o a mò di spara-mele – solo e sempre mele – come si
assume bene il penzolare tra le funi dei panni stesi, sui terrazzi,
all’inizio; più in avanti si ottiene il tappeto volante così a innalzare il
tasso di acrobaticità orizzontale e dare una sferzata al linearismo, e poi
non resta che battere i guardiani progettati per non essere guardiani, in
quanto è peccato ledere l’autostima di chi detiene il joypad, che vuol
venirne a capo in pugnate di secondi spiccioli. Ci sono troppe mele. Con
questi oggetti che cadono dagli alberi si è capaci di colpire i nemici che
perdono i calzoni da lontano, e difatti la corporatura degli stage sembra
volutamente sottostare alla derubricazione dell’azione, pur fluente, pur
gradevole quando si specchia nelle gesta di Aladdin, centro del mondo, re
del mondo. Ma un re attorniato da cortigiani di una certa statura quando si
assume in esame la qualità dei disegni di uno staff di antagonisti e co-protagonisti
che mira a emanciparsi dalla condizione di schiavitù che l’artista gli
impone come vincolo d’esistenza. Dovranno mettersi l’anima in pace. Si
vedono le città di polvere. I deserti iniziano a sconfinare oltre il limite
dei sessanta in playfield per ricostruire col
mestiere di chi tratta bidimensioni dai tempi del SinclairZX81 questi
sofisticati ambienti in pellicola Kodacolor da antologia, colorazioni
estremamente positive che devono sintonizzarsi col suono Mega Drive a canali
separati discreti, con qualche tono basso, anche se le musiche si ascoltano meglio sull’Amiga
1200, e alla fine il videogioco poteva magari diciamo pressappoco estendersi
ancora, fermo restando che lo stesso rimane tra i più seducenti pezzi di
plastica che siano mai fuoriusciti dalle fabbriche Virgin Games.