L’edizione
PlayStation di Soul
Edge richiama ancora il rinnovamento del beat ’em up tridimensionale,
assolutamente a base d’armi, che nel Novantasei pure realizza la maturazione, la
culminazione della Namco. Con l’esclusivo Edge Master Mode il
parco utensili dell’arcade viene allora ampliato in funzione di un percorso ruolista a
ricerca che al completamento conferisca otto varianti dell’arma
di base. Otto mutazioni non unicamente estetiche ma concrete, laddove si riscontrerà il
decremento o l’aumento di potenza offensiva della scimitarra, lì dove sarà tangibile la
maggiore o minore efficacia difensiva della spada, allorquando si registrerà una maggiore
o minore velocità di penetrazione della verga. La clava gigante di Rock, scomoda e
ingestibile ma che quando colpisce disegna morte, crea devastazione, si erge a emblema del
metodo di upgrade introdotto dalla Namco luminosa di quegli anni di entusiasmo, di
esplosione creativa.
Non s’è dimenticata la intro in computer
graphics
che, a quei tempi, faceva uscire di senno un po’ tutti e prestiamo costante il riferimento
al gameplay di strategia tra il Mitsurugi ancora acerbo e il Sigfrido in fasce, ma capace
di brandire una zweihander di trenta chili. Sebbene nel Novantasette si era soliti
definire il Soul Edge come un surrogato di Tekken 2
è un
fatto che il nostro, grazie alla possibilità di parata e bloccaggio degli attacchi, per
mezzo della clamorosa variazione del parco movenze, attraverso la possibilità di afferrare
l’avversario su più vie, mediante l’inserimento di una super combo a proiezione
provveda a fornire uno stato di completezza e al contempo uno spessore definitivamente fuori
scala. Tutto si consuma a seguito dell’introduzione del movimento laterale –
che si sarebbe evoluto nell’Eight Way Run System di
SoulCalibur
– a crear contesa realmente tridimensionale di faccia a
Tekken 2, il cui piano
orizzontale resta l’unica visuale di interazione. Soul Edge è un picchiaduro di attesa,
di studio aggravato dell’avversario, di previsione, di strategie di attacco e difesa, di
evoluzioni dinamiche. Di riflessione. La barra energetica annessa alle armi, che una volta
ricolma cagiona la perdita dell’arma stessa, potenzia il già promulgato spessore tecnico
della opera Namco e anco sprona il duellante a destreggiare mettendo in conto che ogni
colpo assorbito è una tacca in più verso il disarcionamento. Riteniamo che la giostra
all’arma bianca di Namco sia in grado di ridefinire il beat ’em up in 3D sul
verso di contese in briglia d’armatura: la spada urta la spada e si
vedono i riverberi, e i tramonti rossi irradiano di vigore gli affondo così che infine venga liberato l’argine che Capcom aveva eretto alla
conservazione dell’idea bidimensionale di intrattenimento.
Il System 11, l’hardware su cui Soul Edge
girava in sala, evidentemente semplifica il lavoro di conversione, che
difatti rileva massima fedeltà. È
anzi riscontrabile il potenziamento degli effetti di luce e di alcune
tessiture allo stage di Li Long, dove l’acqua del fiume viene rivestita di un un
pulitissimo texture-mapping. L’impianto tridimensionale impiega l’hardware
di PlayStation fino ai suoi limiti, portando tutta una serie di effetti di
rifrazione e interpolazione del poligono e risulta chiaro quanto Namco operi in simbiosi coi microchip e i transistor,
di come sappia trarvi beneficio pure in assenza dell’hi-res iniziale: quando
appena indugi a menzione dei suoni dici che non hai mai udito niente
così per via dell’uso di tre colonne sonore
differenti – l’originale arcade, il remix dell’arcade e un’ultima
(inedita) portante sigla Khan Super Session – da cui
si cattura il vibrato di una orchestra dell’Ottocento così che a
dimostrare che si poteva.
È questo
culto rigoroso per le arti a largire alla opera Namco la sua eccezione, ché
altrimenti era inutile rimarcare la plausibilità storica dell’alto medioevo,
e creare i segmenti narrativi consequenziali, e introdurre i guerrieri in una
meticolosa riduzione dei luoghi se dopo non mi sai trasmettere la epica, e
con essa gli apici del duello. Allora una voce dalla eco trascendente
scandisce tale “Welcome to the stage of
history”, allo schermo dei titoli, nella ferma intenzione di recludere
in una singola frase il percorso di
miglioramento esteriore, acustico e pure anche dottrinale del genere cui Soul Edge si
faceva portavoce; il “salto” di generazione derivante si palesa
ancora più in là delle aspettative del team creativo, già che lo stile e le tecniche adottati avrebbero
influenzato, e in modo manifesto, la direzione filosofica del settore tutto.