Perché
veramente sti umanoidi della Hudson erano avanguardisti del linguaggio tecnico,
e invece si riesce a fatica a sapere chi veramente esistesse dietro il listato
di pseudonimi che la software house consegnava agli organi di stampa nel pieno
della “golden age” del videogioco – ovvero quando saperlo poteva davvero
assumere un senso – e ben due anni prima che G-Loc iniziasse in tutti i sensi a
girare in sala nel cab
tritabudella Sega R360 al costo di 10.000 yen a botta. Il limite di Battle Ace fu
di non prevedere il giroscopio. Certo che il solo pensare di poter fabbricare un
simulatore di Mig-29 per uso domestico doveva essere da schizofrenici
nell’Ottantanove, come lo sarebbe adesso e negli anni che verranno, e pure un Battle Ace che montasse al decollo una simile
tecnologia «sarebbe apparso fico».
After Burner. Ma le visuali sono dal cockpit
di un caccia che vola per gran parte nello spazio, sul modello di Galaxy
Force. Il jet spaziale l’hanno concepito a mestiere a vedere i disegni
presenti su di un manuale che evidenzia dettagli di aerodinamica altrimenti
destinati a rimanere occulti, e ciò stante Battle Ace spara raffiche
lanciando i missili a rilevamento due per volta ed è particolarmente veloce
per essere il prodotto al più sperimentale di una routine di scaling
dei vettori usata in corso di analisi operativa del SuperGrafx nell’88 dai
reparti di ricerca scientifica della Nec: in conseguenza di questo suo
status di prototipo il videogioco manca tuttavia la quantità
bidimensionale per centimetro cubo che gli sarebbe più conforme a un
rilevamento di prestazioni in attività computazionale massima. Difatti la
parete grafica frontale denuncia diffusa indigenza sul quantitativo di
sprite generati via hardware e ancor più nelle fasi iniziali, in quanto in
effetti in direzione est, a dodici miliardi di anni luce dalla Terra, la
situazione arrivi a migliorare nell’orbita del pianeta Asteria, appena oltre la
costellazione di Andromeda. Qui il radar usa rilevare asteroidi di grandezza
variabile e UFO multicolore funzionali all’aumento della condizione di
guerra che quasi conducono al fragore di Space Harrier sul versante
dell’ingombro, e ancorché l’animazione non sia pari all’opera Sega manco a distanza,
è riconoscibile ancora l’autorità esteriore del marchio Hudson nello scontro
ultimo, dove il mostro si tinge di verde.
After Burner. Poiché le dinamiche del
mitragliamento dovevano seguire le evoluzioni estreme dell’andare su e giù e del
virare di trecentosessanta gradi fino al cadere in picchiata, un’inquadratura
esterna avrebbe sicuramente aumentato il coefficiente di rock ’n’ roll nel momento
in cui si spostasse il navigatore di un micron verso l’alto per evitare
all’ultimo una qualche traiettoria missilistica trasversale eppure, tutto questo
avrebbe implicato la posticipazione del videogioco a data da destinarsi e
sinceramente non si poteva, in quanto Battle Ace doveva essere nell’Ottantanove
il titolo di lancio del SuperGrafx. I comandi rispondono bene. I razzi centrano
il bersaglio dietro scorta abbondante, dimodoché chi spara e poi muore non debba
addurre la variabile della mancanza improvvisa di attrezzatura, ma detto tra noi
il titolo non è così impegnativo. Si nuclearizza pianeti uno dopo l’altro.
Addirittura, un impulso sonoro rileva l’eventuale attività nemica a ore 6, e non
vi è neppure bisogno di posizionare rapidamente il mirino da che è il computer
di bordo a impostare il lock-on e a dire quando si deve uccidere; Battle Ace
vorrebbe che si manovrasse con un joystick XE-1 Pro. Non per essere esigenti, ma
sussiste col joystick un incremento prestazionale nei termini dell’istinto
arcade risalente a uno specifico giorno di 187.000 anni fa, quando l’Homo
neanderthalensis ricavò dai resti di un rinoceronte uno spuntone utile ad
affermare supremazia davanti al branco... e a un monolito. Il suono stimola
l’ipofisi. Esso è molto buono. Vi è sincronia tra battaglia volante e musiche.
Due pezzi almeno devono essere ascoltati. Buon divertimento.