In
contromisura di power-up e a disfacimento delle strutture, e gli
ectoplasmi di fine missione, rinviene il bagaglio di conoscenze bidimensionali
di un videogioco ’Novantotto stampato su alluminio Clickboom per i chipset Amiga
accelerati e di
titolazione
T-Zero il cui grandeggiare, in overscan, a bassa velocità, ma a
disinvolto dettaglio fu improvvisamente zeppo. Si viene a sapere che le risorse
umane dietro a Steel Saviour e T-Zero corrispondono, con uno Steel Saviour che di
traverso arriva più rapido non tanto sulla cadenza dell’aggiornamento,
trattenuta ancora, quanto nella forma di aggressione del nemico, che intercorre
a uragani. Lo schermo che si investe di oggetti è tra le qualità incipienti del
videogioco Steel Saviour, il quale crea la proliferazione di proiettili e
astronavi suicide, e che incorpora una realizzazione tecnica abbastanza estrema
da saper muovere un apparato bidimensionale di sontuosità giapponese, di
esagerazioni
visive ancestrali quanto i metalli incisi di simboli di eleggibili alieni,
verso il mondo quattro o cinque, quelli che si ritrovano più avanti, ma bisogna
arrivarci.
Uscirsene con un titolo del genere (di
genere) nell’anno 2004 sta a significare che sei diverso. Vuol dire
chiamarsi
fuori da certe logiche di produzione del videogioco per PC e insediarsi nel
settore dell’indigenza; si trova un distributore minore e si pubblica,
così senza pretese di ricchezza ma per essere ricordati, un giorno di
febbraio, nel 2016. Il team dei realizzatori – che è italiano – cerca nuovi stili.
Destreggia sul blending incandescente. Ché la questione “giocabilità”, in Steel Saviour, è
marginale: ti fai carico della sfida assieme a tutto il blocco di oggetti
del retrogaming che si spostano a serpente intorno al display a patto di arrivare
lontano e dipartire felice in ogni caso, poiché il solo avvicinare gli
ultimi quadri corrisponde alla vittoria, in Steel Saviour. È difficoltosa
l’attrezzatura Atlanteq, eppure contiene
appigli. Come in Gradius V, apprese le tecniche e
interiorizzati i pattern è consentito di raschiare il fondo anche a livello hard.
In quanto Atlanteq è hardcore. Interviene un generale interscambio di pod frontali
a potenziare
le armi di ordinanza e volendo dire, la acquisizione dei nuovi upgrade
conduce per visuali e
tecniche a un utensile che si chiama Einhänder.
Ma Steel Saviour non vuol essere distruggitore di derivazione nipponica. Le
collisioni sono rigide. Si guardi a uno shooter della Cave. In esso
usualmente accade che il proiettile nemico distrugga l’astronave solo quando ne abbia
leso il
centro vitale (hitbox). In Steel Savior, di contro, l’astronave muove in
frantumi anche se il proiettile
ne sfiora appena un lembo di superficie. Intolleranti questi di Atlanteq.
Oppure sono buoni e non hanno calcolato il fatto che soccombere presto è
cosa frustrante, un affare che ti fa assumere i farmaci.
Intervengono mondi. All’inizio infuria una
tempesta. Arriveranno allora le eruzioni rosse e avverrà certo lo stadio
dell’energy
bolt a indurre il maremoto della quarta sezione, nell’attesa che
avvenga qualcosa d’altro, una specie di complimento, in
quella che viene dopo. Il combo system. L’esercizio di sfioramento provoca
l’attivazione di un coefficiente moltiplicatore studiato per aggiornarsi sul
rateo di persistenza reso metodicamente alla sparatoria, ed è qualcosa di
elegante. Le osservi presto le virtù di Steel Saviour. Largiremo plausi al
suo scorrere liscio che è come a uno specchio di luce-Tesla, al centro di
una elettrificazione dipinta di blu. Le grafiche disegnate per le risoluzioni standard in 800x600 pixel dei PC
compatibili del periodo esibiscono un dettaglio capace di guardare
noncurante alle arrivanti generazioni di console in HD attivando un’ampia
selezione di effetti visuali, e non volendo considerare il multiparallasse
appartenente a questi ultimi si procede all’uso intensivo dell’anti-aliasing
ad ampio raggio e di tutta l’illuminazione dinamica dell’universo, in mezzo
al trilinear
filtering, allo scaling, alle rotazioni e a tot milioni di colori
che a turno vogliono provocare reazioni fotosensibili e resezioni mascellari
da ricomporre col filo di ferro così al volo, mentre ancora si spara. E
questo prima che il suono dei mostri-guardiani inizi a spaventare. Vi è
questo bel rumore realizzato da Nicola
Tomljanovich (F17 Challenge, Top Wrestling) che mantiene viva la sofferenza; il techno-rock sperimentale
con varianti, paranoide, paradossale rompe il muro del
campionamento, muove la detonazione in quanto atto parallelo al vibrare di
sfondo. Steel Saviour colpisce forte dentro. Sparatutto di qualità diffuse e
indubitabili, mostra il fianco a intermittenti imperfezioni sul calibramento
della difficoltà, e tuttavia si porta da casa un grado di competenza tecnica
difficilmente osservabile anche nei più moderni shoot ’em up
giapponesi.