ALIEN BREED II: The Horror Continues di @Luca
Abiusi
Anno: 1993.
Destinazione: Amiga 1200. È il primo titolo apposta pensato per l’ultimo
microcomputer della Commodore, ed è evidentemente il più
riuscito videogame, sul motivo del gameplay, a venire sviluppato dal Team17:
anabolizzante, potente, minaccioso ed eccessivo, il videogioco si asserve al
level design di
Alien Breed adoperando i nuovi effetti grafici del chipset
AGA. Un titolo di ultima generazione importante, malgrado che il concept non
sia nuovissimo. La possibilità di acquistare un consistente numero di nuove armi, che si trasforma in necessità vista
l’enorme mole di fuoco prodotta dai nemici, rende Alien Breed
II uno
sparatore predisposto all’upgrade radicale. Ancora consigliabile l’interazione simultanea con un
mitragliatore umano per usare al massimo la potenza di fuoco e uscire
vincenti dall’assalto dell’alieno, ancora più cattivo.
Le estetiche eccedono di elaboramenti
cromatici evoluti. Nello strato del labirinto Rico Holmes attinge a
centoventotto vernici, e
ne scomoderà duecentocinquantasei per i (rimarchevoli) schermi di intermezzo.
La gigantesca mappa – per altro visualizzabile a display con differenti
livelli di zoom – vuole appesantire il fardello dell’ispezione, e
l’avamposto è sempre infestato di alieni e insetti-macchina; il dettaglio
risulta talmente elevato che è possibile avvistare chiaramente
l’insignificante dettaglio, le feritoie nella pavimentazione. Ciò nondimeno, la stoccata
del maestro avviene in azione di costruzione degli spazi, resi
intricati per
ostacolare il ragionamento e rendere frenetico, disperato l’atto della fuga.
Per dire, nel primo livello
capiterà di dover individuare e far brillare una catena di reattori, per poi
cercare la via di
uscita sullo spettro del countdown, prima che tutto esploda: la voce computerizzata avverte dell’imminente
deflagrazione, e non ci vorrà tanto perché s’instradi il tunnel che non
c’entra, la via che dice game over. Il
suono, commissionato ad Allister Brimble, dice invece che è imponente.
Si deve rivalutare in positivo la filosofia
del Team17. Le infrastrutture arcade di progressione e assuefazione. E Alien
Breed II riesce benissimo in ciò che i programmatori si erano prefissati,
per cui realizza un gameplay profondo, pressoché cerebrale e che ridesta il
terrore per i luoghi chiusi, le strettoie: il tema del buio e dell’ansia
rimarrà la base portante della saga anche dopo il passaggio al 3D. Eppure è
sulla bidimensione a tocchi del 1200 che si consuma il meglio della serie,
ed è qui che bisogna sostare se davvero si vuole cavare qualcosa dal Team17
narciso che reclama la fantascienza formato floppy disk. Ci sono le
password. Largizioni. Un po’ di aiuto, dopo le svastiche del pur amabile
primo capitolo, ma questo sistema di recupero del livello appena solcato –
seppure con l’armamento standard – funziona e rende salvi dalla possibile
frustrazione del dover riprendere il titolo dall’inizio. La sostanza. Alien
Breed II dura tanto. Non è come in sala giochi dove se memorizzi il pattern
puoi ultimare in nemmanco un’ora. Ennò. Qui, se pure realizzi il pattern,
non puoi di grazia ambire a memorizzare la posizione del singolo alieno che
compare improvviso, e devi piuttosto ripiegare sulla conquista della
posizione, del territorio. Passare da una zona all’altra della base
spaziale, ad acquisire le chiavi, le munizioni, i crediti per ottenere le
munizioni, i kit di pronto soccorso. L’ossessione. La pulsazione. Si dovrà
scappare al mostro e al contempo restare lucidi, non farsi risucchiare nello
sparo arbitrario, quando non serve, quando non resta che darsi: ridotti a
larve umane si dovrà presto guadagnarsi la postazione del terminale così da
poter ascoltare, per l’ennesima volta, l’inquietante e femmineo welcome to Intex...
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