DREAMWEB di @Luca
Abiusi
Le Sette Forze Del
Male hanno deciso di attaccare Dreamweb, la rete cybernetica esercitante il
controllo. E invero sì, un po’ Matrix, questo Dreamweb, quando mette in
parallelo la realtà col surreale del trip neuronico, ma il film
giunse più tardi. Assai più tardi. Quindi Dreamweb è avventura cyberpunk
pensata per utenze mature, ed è intrisa di sesso, droga e rock’n’roll, e il
sangue è onnipresente. Sicché Creative Reality racconta di un mondo privo di
etica e crepuscolare, notturno, virulento. Il fumettismo di Lucasfilm sembra
distante un anno luce. Due anni luce. Adesso si partecipa di una rilettura
fantascientifica traumatizzante che parla di esoterismo e di non si sa cosa,
almeno all’inizio, quando c’è bisogno di orientarsi, muoversi all’ispezione.
La ristrettezza del visus non fa che aggravare il senso di inadeguatezza, dimostrandosi, alla fine, una
opzione di programmazione più stilistica che
dovuta a limitazioni tecniche. Vi è ancora il “punta e clicca”, che seppure con qualche primizia – lo zoom tracciante
– rimane immutabile rispetto ai meccanismi delle avventure del periodo.
Alquanto sottostimato intorno alla sua
pubblicazione, perché non così impavido nelle estetiche, Dreamweb realizza
adesso lo stato di culto. Il “passaparola” ha fatto in modo che dopo
diversi lustri l’avventura di targa Empire ottenesse riconsiderazione per il meccanismo
di trame che si dissipano
gradualmente verso il thriller psicologico delle narrative cyberpunk;
accostando, nei margini di un’interfaccia evidentemente stilizzata, le
classi semantiche di Revolution Software, che col suo
Beneath A Steel Sky
si era conquistata la scrittura videoludica di avanguardia, il protagonista
muove in questi ambienti di ruggini e immondizie, stati metafisici, shock
“grafici” à la Policenauts dove il puzzle solving è di norma,
seppure che la
complessità di taluni enigmi può ritornare eccessiva sul lato della
cognizione, dato che sovente il ragionamento logico si fa nebuloso e la risoluzione
un fatto apparentemente incidentale. Eppure la barriera d’intralcio viene
eretta in funzione di sceneggiatura, per cui, e a meno di non essere
congenitamente inabili all’esercizio della combinazione degli oggetti, l’eventuale
non che prematuro abbandono del videogioco è tuttavia da escludere.
Dreamweb ti tiene lì. È solo di striscio accaduto di
ritrovarsi coinvolti in un così maturo delinearsi dello script, alla notte,
che ti fa camminare dentro agli spazi
subnormali con questo protagonista che vuole allontanare il vituperato
stereotipo e, ancora, definire una psiche di riferibilità contestuale per
cui il suo stato di coscienza – e di incoscienza – usi riflettersi allo
scuro cromatico del territorio distrettuale, modificandosi in parallelo. La questione delle grafiche
inferiori a raffronto dei giocattoli a puntamento prodotti dalla LucasArts è un falso storico: Dreamweb
crea visuali minime eppure di largo dettaglio, in una finestra grafica che restringe
in accordo alle anatomie di rarefazione, e che occupa altresì la zona centrale
dello schermo a focalizzare la sequenza, rendere il momentum della
scoperta un fatto significativo e irripetibile. Meritevole di credito la
colonna sonora discreta, mai invasiva, e che di fianco a questi effetti
ambientali di sintesi in real time rende l’equilibrio di un lavoro
strettamente concettuale, istruito per mantenere una certa continuità con
gli schermi grondanti ossido di azoto. Rimarchevoli, i game designer di Creative Reality.
Scrivono un codice di
struttura tale che pure a ricavarne erronei indizi sul modesto sfruttamento
dei personal computer forniti di monitor rgb e scrivanie non rimanga altro che di collocare
il loro Dreamweb nella classe di riferimento delle avventure dei primi anni Novanta,
nel momento in cui il settore poteva ancora dire qualcosa nei termini della
credibilità autoriale, e quando si poteva raccontare storie a partire dalle
suggestioni testuali, e non giusto dalla superficie delle immagini in
bitmap.
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