ALIEN STORM di @Marco
Benoît Carbone
Alien Storm affascinava all’epoca in cui fu
partorito da una Sega in estro creativo, affascina oggi e continuerà ad affascinare
infinitamente, e questo per un semplice motivo: è un mondo estetico costantemente altro,
ma allo stesso tempo è un luogo situato, una zona morta in quella fine anni
ottanta fatta di mostri gommosi, fantascienza orripilante, slime fosforescente,
fumetti di bug-eyed monsters e video-giocattoli scorretti, seppellita da due
decenni che ne hanno corroso lo spirito alle fondamenta e destinata forse a mai più
ripetersi. In questo senso, Alien Storm non è solo una delle riletture
stilisticamente più rilevanti dell’allora dominante – e ormai praticamente defunto
–
genere dei brawler a scorrimento. È, allo stesso tempo, un’incarnazione perfetta
dello spirito del B-movie fantascientifico-orrorifico dell’epoca, insieme a giochi dal
simile spirito come Slime World, o
Alien
Syndrome della stessa Sega. Pop, orrorifica quanto umoristica, di alto consumo e
ritmi veloci, fumettosa ma sempre disturbante, la creatura generata dalla costola di
Golden
Axe è in primo luogo un arcade di classe, un beat
’em up a scorrimento
che del titolo fantasy di Sega eredita l’hardware, l’originale rilettura hack and slash di
classici come Double
Dragon e la triade di personaggi selezionabili.
Alien Storm però non è un semplice seguito, né la
transizione dell’universo fantasy a quelli sci-fi e horror avviene per mera opera
cosmetica. Il barbaro, l’amazzone e il nano, certo, diventano qui una coppia di
ristoratori di alien burgers con il loro fido robot-cameriere, con un
chiosco che è pronto a trasformarsi nell’hovercraft degli alien busters.
Ma la nuova visione estetica, come da sempre avviene nel videogioco-mondo possibile
riuscito, stira il gioco e i suoi meccanismi finché le due componenti non risultano
inevitabilmente invischiate. Ed ecco che Alien Storm radicalizza il sistema di
colpo-corsa-salto di Golden Axe, privato della verticalità e
trasformato in una sequela di sinistra-destra, di corse e capriole, di tempistiche
mitragliate, colpi di calcio, fiammate, scariche elettriche e deflagrazioni ai danni degli
alieni, small o big che siano. La velocità raddoppia, non solo a
livello di rapporto frames/tempo, ma proprio nella concezione degli scontri: gli ignobili
mostriciattoli schivano i colpi, si spostano sull’asse della profondità per scansare le
distanza appropriate degli attacchi, si concentrano in gruppi o compiono lunghi salti per
colpirci, mordicchiarci, inghiottirci. La rapidità degli scambi è una poetica che non
agisce solo quantitativamente, ma si incarna nelle sezioni alternative: l’una, di shooter
in prima persona, pura e intollerabile frenesia parallattica di beam alienicidi alla
ghostbusters; l’altra, di shooter a scorrimento, fatta di salti ad ostacoli e button-mashing
all’inseguimento degli insettoni in fuga. In questa rinnovata economia del concetto di
gioco alla Golden
Axe, i colpi diminuiscono, le cavalcature scompaiono e
così le pozioni cumulabili, la cui quantità forniva la possibilità di un utilizzo che
premiava il risparmio con magie sempre più potenti e strategicamente utilizzate.
Alien Storm spazza via questa componente strategica, come
la differenza di abilità che contraddistingueva l’amazzone, il barbaro e il nano del suo
predecessore. Via, dunque, le pozioni, per lasciare spazio a capsule energetiche e una
barra di energia che consente un uso limitato di un’unica smart-bomb: che esploda la testa
del robot, cali una testata nucleare attivata dalla sexy Karla o intervenga la navicella
letale del nostro fido alien buster in tuta blu, poco cambierà se non a livello visivo.
Eppure parte della forza di Alien Storm è proprio nell’estetica di alta classe, capace di
dare vita a un universo fumettistico e orrorifico al crocevia tra GhostBusters, Invaders
di Tobe Hooper e gli infiniti esiti sci-fi della lezione di Giger, il tutto accompagnata
da una soundtrack industrialoide ritmatissima, una specie di misto tra new wave
elettronica e colonna sonora di Goldsmith per il
Total Recall di
Verhoeven. In questa bolla stilistica gli alieni popolano lo schermo fastidiosi come
insetti, proliferando in forme polipoidi e policefale, a metà strada tra i folletti di
Hopkinsville e i Critters o tra piranha e canguri, ora infestando comuni mail boxes
e ora sbarrandoci la strada a metà gioco con un boss che attraversa trasformazioni
raccapriccianti: da un ibrido tra uno scorpione, un insetto e un viso da strega a un
colosso macrobuccale cornuto che ci ingoia fino alle gambe (“dis-gusting!”) o fa
prorompere un pugno dallo stomaco in pieno La Cosa-style, fino a diventare un’orripilante
piramide rovesciata biologica cosparsa di occhi, con uno stantuffo superiore e una serie
di tentacoli per colpire. Alien Storm prosegue veloce e inesorabile, aumentando il ritmo e
la necessità di risposta a sopravvivere con una perfetta curva ascendente che si rivela
immediatamente affrontabile ma difficilmente scalabile con pochi crediti a disposizione.
Il contraltare di un progetto di questo tipo è la perdita di uno spessore strategico di
una certa rilevanza, oltre a una certa brevità e alla proverbiale tendenza alla
ripetitività del genere. Eppure, di quel mondo di bug-eyed monsters Alien Storm
ha ereditato un paradossale pregio: la scarsa longevità da meteorite alieno pullulato di
folletti carnivori, il non-so-che d’insoddisfazione che rende possibile l’equivalenza tra
smettere di giocare e sapere che ci si ritornerà puntualmente.
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