ALIEN SYNDROME di @Luca
Abiusi
Sembra
un Ridley Scott che mi influenza appena di un poco una intera generazione
di film di fantascienza posteriori al suo Alien, dove che le sceneggiature a
esso precedenti riportavano tutte di vampiri nello spazio e quelle che gli
succedettero di alterazioni genetiche di organismi con le zampette e i
tentacoli, e questo significa che il regista ha pure anche indirettamente deciso quali
dovevano
essere gli argomenti di tutta una schiera di videogiochi di genere degli anni
’80 e ’90, tra cui ricordiamo Alien
Syndrome. Si tratta di un coin-op dove si racconta di una
proliferazione di insetti non identificati presso una base spaziale orbitante,
e di due eroi mandati lì per venire ridotti a brandelli. C’è questa finestra
grafica multidirezionale che rivela uno scenario di vibrazioni elettriche
come se di impianti di depurazione dell’ossigeno che non funzionano. Perché
dentro sono entrati i mostri. Si sente lo spazio freddo gelido di
Spazio 1999. Si può giocare in due.
Il coefficiente di difficoltà è intollerante
verso il razzismo. Il bestiame immondo schifoso viene fuori da quella botola là
ma
quando te ne accorgi è sempre troppo tardi. Vorresti possedere il superpotere della
visione periferica ma no, il videogioco lo hanno pensato per durare non più di
tre minuti e quarantacinque secondi, che dietro scalpitano, uno si è fatto
cambiare 3000 lire e sta iniziando a secernere saliva acida.
Strategia del disordine,
Alien Syndrome. Meccanismo secondo cui deambuli per lo schermo con la
scimmia sulla spalla in quanto che va inevitabilmente a finire che ti devi
voltare
repentinamente a esercitare fuoco cieco, che è quel formicolio che ti prende
quando ti alzi la notte fucile alla mano dopo che ti sei visto un film
horror per andare in bagno e già sai che dalla tazza usciranno fuori le
creature. Dinamica del terrore, Alien Syndrome.
Principio secondo cui arrivare alla chiusura del quadro significherà
bypassare gli algoritmi della cpu, che ti butta un osso giusto quando che
hai interiorizzati certi bugs dove che il mostro sembra che si ferma, e puoi
scappare.
Ma però no, poi viene e ti prende. La mappa del complesso è visualizzabile sui terminali.
I quali indicano la posizione dei “prigionieri” ancora in vita, e si è in
buona sostanza nello sparatutto
multidirezionale con possibilità di full upgrade delle armi fornito
di visuale isometrica e grafica mica da ridere.
Un labirinto. La base spaziale è
un reticolo tutto pieno di corridoi, chiusure di sicurezza scorrevoli,
supercomputer luminosi e stanze con la sorpresa. Interviene un sistema di
supporto satellitare meccanizzato che consta in questi piccoli robot-segugi funzionanti a
pod alla R-Type, anche se in misura meno
utile. Il gioco a due è
oltremodo consigliato. Mai come nel caso di Alien Syndrome la cooperazione si rivela
funzionale al completamento, ché puoi anche diventare rambo e battere il
pattern, ma vuoi mettere la cosa di potere mandare avanti ramba a fare tutto
il lavoro sporco. Impagabile. E se poco poco arrivi abbastanza in là coi
livelli può succedere che perdi il contatto diretto con la realtà e di
ritrovarti elemento strutturale del cabinato griffato Sega e anche un po’ Sunsoft, visto
che di Alien Syndrome furono prodotte due versioni, una ufficiale e l’altra
concessa su
licenza alla software house di Cotton,
che si prese il fastidio di modificare l’artwork e di cambiare il colore del
cassone, per quanto il codice rimanesse immodificato. In proposito,
quest’ultimo usa distinguersi piuttosto rimarchevolmente ancora adesso che
siamo vicinissimi al futuro predetto all’interno dei suoi listati di stretto
assembly, grazie a questo peculiare registro esteriore di queste figure
aliene infette e i vermi tipo larve che si dischiudono, elevato dettaglio
low-res come a Noi piace, e balzano ancora all’occhio i micropixel
sul disegno slasher dei mutanti tutti quanti con le budella
attorcigliate e il sangue che si riversa verde. Le musichette sono tetre e le atmosfere
determinano
il resto, del resto si tratta di questo, la cosa che si viene messi in mezzo
da game designer privi di senso etico è irrilevante rispetto al fattore
della simbiosi con un videogioco che parla di amore, alieni e sensazione di
pelle d’oca.
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