TIME GAL di @Luca
Abiusi
Questa
cosa di animazione si meritava una serie TV, e anzi abbiamo deciso che alla
Taito stavano pensando di fare come Urusei Yatsura e che la cosa del videogioco
sia arrivata dopo che venne detto loro che in effetti sarebbe stato pericoloso
mettersi a competere con Rumiko Takahashi, e che era più giusto fermarsi a
valutare se non fosse il caso di raccogliere il girato per farne un Laserdisc
all’ultimo grido, «ma però coi suggerimenti a schermo, se no finisce come
Dragon’s Lair che tutti parlano di com’è bello e poi nessuno ci gioca perché non
si capisce niente». Invece Time Gal non ci mette niente a diventare bello. Le
prime mosse. Basta assumerne un trancio all’inizio perché tutto inizi a
diventare un vizio, due capsule di polvere di fantasia ogni due ore e se muori
spesso è lo stesso finché ti rammenti di agire in funzione del tempo, a patto
che il gioco non incominci a prendere coscienza e a utilizzare una soluzione
visuale a specchio programmata per confondere l’iride, ma del resto Time Gal è
forte per questo, mischia le carte, finta di andare a destra, doppio passo, e
poi va a sinistra. Ci sono le diramazioni. O più nel dettaglio le opzioni
multiple dove se sbagli sei morto.
Benché la direzione venga consegnata
a Hidehiro Fujiwara – un pezzo da novanta: avrebbe fornito contributo per
Arkanoid, Gun Frontier e Darius II – è lo studio della Toei Animation a
occuparsi di tutto il lavoro di character design, mecha design,
animazione, catering; si respira l’aria delle grandi escursioni cinematografiche
dei primi ’80 e degli OAV in VHS, non proprio Mamoru Oshii ma quantomeno Studio
Pierrot, notevole disposizione di quest’inquadratura dinamica obliqua, carrelli
a non finire, grandangolo, primi piani, secondi piani, percorrimento di tunnel,
dinosauro. Viaggiatrice nel tempo. Codesto Yattodetaman munito di estrosi
capelli verdi e spy movie, fantascienza tipo Mad Max, Daitarn 3, case Horror con
la falce scatena un montaggio sequenziale che se dicono che è stato Kawajiri
niente da dire, è lui, per cui è un fatto inammissibile che la colonna sonora si
manifesti così mancante a livello di colonna sonora; vi è una linea
d’introduzione Midi e poi solo effetti – ottimi effetti, va detto – ambientali e
campionature che se mai posizionati a fianco ai suoni trionfali di precedenti
laser game coi cavalieri possono diventare miseri eppure, nello slancio
dell’esteriorità dei movimenti di un trapezista del Cirque du Soleil Time Gal fa
sembrare le dimenticanze sul rumore un fatto marginale se poi ancora espelle il
raggio laser della pisola verso la disintegrazione dei mostri, assumendo così al
centro del Laserdisc la voracità di premere i tasti e apprendervi al ritorno il
senso del gesto iperatletico, non esattamente la costante del superamento del
quadro, ma una forma di comunicazione che è quasi cinema.
Chiaramente Time Gal è la sua
protagonista, Reika. Vestita da amazzone, traversando lo spaziotempo la si
guarda inseguire un megalomane che si chiama Luda mentre gli impedisce di
modificare il corso della storia, che altrimenti lo vedrebbe incontrastato
dominatore dell’universo sì, ma Time Gal è Reika. Lascia stare che ci sono tanti
elementi che le gravitano attorno; allorché carente di amazzoni, il programma
avrebbe smarrito la via sensibile e sarebbe diventato un laser game. Al
contrario, con la sensuale dirompenza di lei oltre al cinema s’incomincia ad
assumere il culto della personalità femminea ideale, e se anche la conduzione
dell’avatar non avviene consequente il videogioco a base bitmap si conviene avanzando di essere componenti attivi del funambolismo anime della Taito
e non parliamo di comparse, non di realizzarsi automi dalla bava calante in
attesa di maneggiare lo stick; Time Gal è un flusso, costante, disinibito, di
evoluzioni empiriche approssimate ai sintomi di una trasmigrazione attraverso lo
schermo – attraverso lo specchio – come eventuale postumità di un sovraccarico
di feromoni che fluttuano per deliberare se è il caso di stabilire una
connessione tra organismi viventi e oggetti apparentemente statici. Oppure si
tratta solo di un disco che gira e con tutto ciò, sostare davanti a questo pezzo
da museo, a una generazione dal primo incontro, è stato assai più che tornare
sui luoghi dell’infanzia. È stata, in verità, un’esperienza illuminante. Poiché
quest’opera d’interazione parziale del 1985, quattro mosse in croce, un disco
che gira, sarebbe in effetti capace di affondare la produzione videoludica degli
ultimi dieci anni senza nemmeno rifarsi il trucco in HD.
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