MOMOKO 120% di @Luca
Abiusi
Dei giorni quando montano Momoko
dietro il cabinet che prima ospitava variazioni di
Space Invaders, un
qualche Xevious o
Terra Cresta, vedi i colori pieni vivi del liceo
Tomobiki render l’idea del Giappone un po’ folle di Rumiko Takahashi e realizzi giornata,
ti rallegri di questo nuovo platformista assai demenziale brillante, vivace per
saltellamento sparamento orizzontale di creature tipo gente rumorosa dello spazio.
Momoko 120% è alla base del gameplay stiliforme degli anni
Ottanta. Si parte dal basso – Rainbow Islands,
Crazy Climber,
Ninjakun –
fino al terrazzo del dirigibile-momoko, da prender volante, e si preme pulsante per trovar
la via più breve tra i corridoi, in mezzo alle fiamme. Coin-op con meccanismo a tempo.
Agire (e non necessariamente pensare) in velocità. Jaleco v’inserisce l’estemporanea gara
a ostacoli ricca di premi in power-up dell’arma ed extra punteggi come
alienazione della linea di consumo, per variare il destra e sinistra e salto,
modificar dinamiche non mutabili in corso di performazione, posto che il videogioco mira
comunque a esaltare il minimale ritornare di azioni e movimentazioni.
La frustrazione. Jaleco si impegna di concedere manco il
frantume di via d’accesso o di fuga dei macchinari Capcom, e ciò mostra quanto doveva
esser frigido il sistema di gioco a piani orizzontali, strisce semoventi, balzi da
eseguire in assoluta perfezione, spostamento da portare in controtempo poiché se afferri
le ringhiere e resti appeso poi non puoi sparare ai fantasmini rosa, e muori. Al
principio, da bambine, può esser relativamente semplice. Quattro piani di morbidezza e
s’è conlcuso. Ma poi succede di diventar grandi e già dal secondo quadro son problemi, e
l’insidia si fa insidiosa di nemici ubriachi che non sai se colpire per dritto o dal basso
– i pesci blu, dio li stramaledica – e di slimer sputa-sputa che invero sai di
dover centrare più e più volte, pur nel consumo di secondi assai pesanti, ché dopo
rilasciano il potenziamento ed è utile sparare a raffica. Per conquistare la vetta
bisogna passare per il trampolino, saltarvi sù e vedere di atterrare sul margine, ché
altrimenti cadi e muori. E sai che tragedia arrivare all’ultimo per poi perdere per una
questione di transitoria inettitudine. Gioia. Momoko 120% sarà anche ottuso e vagamente
monotono, ma è ugualmente il videogioco che descrive al meglio il funzionamento
dell’arcade di persuasione fatto apposta per scatenare il pagamento del gettone e
restituire alle utenze il magistero della schiavitù.
Quanto Giappone, Momoko. Le porte scorrevoli arancioni, i
banchi, i disegni appesi, le graduatorie appese. Le bacheche. Si respira la stramberia
della saga d’animazione scolastica ed è un merito, visti i mezzi e visto come Jaleco sa
attingervi per creare sprites lollosi e fuffosi,
giocattolame di batuffoli volanti e scarabocchi dell’asilo. Il colore si
accosta virtuoso ed è saturo, colorato, pieno di colore, colorante,
coloranti, eccipienti. Lo spartano di Jaleco. Queste grafiche squadrate
eppure seducenti, piene di coloramenti, cose futili da applicare al fondale
che però sono importanti per la definizione della baraonda del fumetto,
benché Momoko non sia un adattamento da fumetto, anche se doveva esserlo,
all’inizio. Fu tutta colpa di Shogakukan. Lo dico alla maestra. I suoni si
allineano al contesto e fanno beep, si allertano all’avanzare del fuoco,
arridono (irridono) il passeggio (passaggio) tra le epoche e i plessi a
inseguire la maturazione di bambina, che dopo l’università appresta in
matrimonio, il sogno di ogni teenager giapponese degna di Giapponi. Oggetto
di studio interessante, Momoko. Vi traspare la cultura del videogioco
formato anni Ottanta cui si fissava il gingillo della partita di passaggio,
dopo i compiti, prima dei compiti, al posto dei compiti, e a pensarci non
doveva essere così occasionale l’incontro con Jaleco, se dopo il primo
appuntamento ne reclamavi ancora un secondo, un terzo. No. Dal momento che
oggi ancora ci si attacca dipendenti, Momoko 120% vuole il suo status di
elettività al di fuori dell’essere macchia di gioventù, ricordo felice di
quando si frequentava il liceo.
|
|