Perduti
nella terra di confine accade di ridestarsi, e rimanervi orfani. Ultimato Ico imperversa
dunque il malessere dell’abbandono, e sai che
la odissea non tornerà se non traverso lampi di luce,
figurazioni dove il videogioco usi redimersi in forma di affisso, monumento
a progenie di un futuro distante. Non è
missione di chi scrive di
classare l’opera di Fumito Ueda poiché chi scrive, appunto, è solamente umano.
Si
tenterà semmai di tracciare l’illusione del mondo parallelo. Maldestramente,
si cercherà di raccontare le
avventure dell’impavido che si oppone alle forze del male e di marchingegni
adducibili al platformer a
completamento di enigmi, e ancora Ico si dilaterà in avanti
l’iscrizione al genere perché il genere venga poi destituito: «ho voluto
realizzare il ritorno all’avventura dinamica di Eric Chahi, l’incontro
di due unità
umanoidi che avvenisse all’interno di un altro mondo, un’altra terra».
Oltre al suo prevedibile accostarsi a una lettura ideocraticamente poetica,
introdotto all’idillio dello spazio dimensionale Ueda declama un percorso a
campo lungo che si delinei con intenzioni di autocentrismo.
Il contatto con Yorda, lacerante, suggerisce
che il solo pensare di allascare la stretta sarebbe da codardi, foss’anche
a ricognizione del luogo in cui il maligno accampa
in avamposto, ché vuol portare tenebra alla luce e solcare l’inquieto, di mezzo
al
tiraggio del fulcro, la risoluzione del meccanismo su per torrioni in pietra grezza; il
rampicare l’arcano devìa nel preservare la sacralità di Beatrice e
sull’ideale dell’eroismo, chanson de geste il cui
acciaio diventa legno che trapassa lo spettro della fine di tutto. Ueda descrive
luoghi non descrivibili. Assume, per licenza di magisterio, l’ufficio del
dirigere all’estremità del possibile – e dell’estimabile – a indurre
chiaramente una sorta di modello precambriano, come a monito verso un
predeterminato metodo di sofisticazione dei controlli, e per questo Ico è
minimale per sistemi di spostamento e interfacce, e mira a ripulirsi degli
artefatti e gli “hud” cosiddetti, che avrebbero altrimenti nuociuto alla
integrità del visus. Yorda si
afferra con lo shift laterale. E non sia mai di perderla di vista, ciò nondimeno la donzella
è tutto fuorché un automa: dimostra personalità. È capace di arrivare verso l’appiglio
e di risalire la scala, e pure cerca la protesa mano del ragazzo cadente nel vuoto, davanti al crepaccio,
nel quando che si deambula tra queste geografie a strapiombo, vento che scuote i
pilastri del cielo a ricompensa di manufatti e massi, e balconi
sospesi che oltrepassano il mare.
Allegro ma non tanto, concerto n. 3 di
Rachmaninov, Ico sovverte la costumanza del classico e adesca il virtuosismo. La colonna
sonora portante è il suono della tramutabilità, così il risuono del passo
attutito dei
due d’improvviso sancisce il sorpasso della sintesi a trentadue bit.
Nessuno slancio d’archi che enfatizzi gli eroismi, i sentimenti. Interverrà piuttosto un
assai più rarefatto apparato di acustiche di verosimiglianza, di assoluta pertinenza
ambientale benché poi non venga a mancare il canto dei titoli, in accordo con Sony. Il Graphic
Synthesizer è definitivamente reso al centro degli elaboramenti tridimensionali
d’alto rateo in trenta fotogrammi, eppure è la tessitura a rendere al monolito il suo
apogeo, l’ornamento in granuli di roccia e affreschi, giardini di steli in verde fulgido,
camminamenti a perdita di orizzonte. La parete. Il complesso infrastrutturale.
L’immensità. Ueda, amighista convinto, ultimo scapigliato della
industria del
videogioco aumenta la prospettiva e i punti di latenza del pre-rendering per istigare
il poligono in tempo reale, sebbene non si derubi poi dell’opportunità di fare grande azione
di cinepresa, sì concedendo di allargare visione sulla manopola di destra,
ma definendo pure
la sua sequenza di immagini non modificabili in ordine di messa in angolo.
La nuova corrente dell’arte visuale che Ico decide per estendibilità del media
di là dei suoi margini di pertinenza, lì dove il gioco elettronico si svincola
del significato più stretto si fa luce
all’annettere di questo racconto non scritto, che l’autore fa suo all’atto accordante la
carne, al collimere di entità verosimili e comunque sovrannaturali, ché allontanare il
realismo era l’unica via attraverso cui riscuotere il favore della
trascendenza.