Ci
verrà chiesto di recedere alle occasioni edificanti del Nostro passaggio terreno
in modo da tornare a Shadow of the Colossus e al colluvio
d’mmagini. Non una qualche azione significativa che muta il corso degli umani
eventi ma un dipinto che li nobilita, come quando portammo Yorda a salvazione
nel tragitto che avrebbe illuminato il videogioco d’oriente. Si è al preludio.
Una voce fuori campo chiede che si volga lo sguardo al cielo, dopo essere parsi insignificanti
dianzi a questo primo colosso, opera d’arte terrificante, possente, un
manifestarsi di verzure muschievoli e sentimento di culto irrefrenabile; eppure, all’atto della
contemplazione si contreranno brame di sangue e vendette, ricurvi nello strazio per la amata ceduta al sonno.
Traversa la eco
più shakespeariana della tenzone, Shadow of the Colossus, a iscrivere catarsi tra
il bene umanista della ragione e il male relativista della materia.
Ci si immagina uno spazio asettico, tra i
divisori di uffici bianchi, all’ultimo piano di un edificio bianco al centro
di Tokyo. Il Team ICO è al lavoro su Wanda e i Colossi. Un dettaglio
superficiale del destriero sta per essere rimosso; Agro apparirà sinuoso,
selvaggio. «Più verde» sentenzia Ueda dal fondo della stanza, «la terra arsa
va bene, ma voglio brutalità, foreste antiche oltre i deserti». Gli
storyboard sono quasi pronti, manca Grandis Supernus, il titano finale. Si
può dire che Shadow of the Colossus si erga a una fabbricazione in silico, dove è la coerenza tra gli elementi a muovere i pachidermi,
austeri nell’azione a ventiquattro fotogrammi che ne magnifica l’abbattimento. Wanda
solleva la spada verso il sole. Il riverbero indica la via
d’accesso al prossimo colosso. Si è lontani dalle classi avventurose o da
qualsiasi esplorativo a orientamento arcade; se è vero che l’ispezione delle
pelli irsute dei giganti ispiri i meccanismi dell’action game, è
lampante nella stessa misura la restaurazione in loco dei generi
ludici conosciuti.
L’acciaio attraversa le carni, truce, nel punto
debole di questo dio dell’Olimpo, il quale scuote il capo bruscamente, reagendo
a scossoni. Wanda è sbalzato in aria, ma ricadendo si aggrappa disperato e
sferra il colpo ferale. Ogni creatura è in realtà un enigma stratificato,
semovente, in movimento. Al cospetto del ciclopico Gaius, che domina la torre al
di là del lago, si è impotenti; solo una indagine adiacente i luoghi della
contesa porterà risposta, nell’attimo in cui la natura silvestre si aggrega alla
bestia entrandovi in simbiosi. Belua Maximus giace all’ombra del tempio. Wanda,
pur temendone la furia divina, gli si accosta, spavaldo. I suoni sono
crepuscolari, accrescono la percezione di mistero raffermo, in pietra. È l’anticamera
dello scontro. «Bisogna battere sul cambio dei toni, esaltare la scalata»
realizza Otani volgendosi all’orchestra, «voglio sentire gli archi cantare, e
più vigore in quel vibrato, signori». Shadow of the Colossus è prima quiete, poi
tempesta. Una tempesta impetuosa quanto il volo di Avis Praeda, che va
conquistato da un’altura, in picchiata, per solcare i cieli e affondare la
spada, ancora, fino a che si ha respiro. Ci si immagina
la natura inviolata, tra le rocce del santuario, in cima a una montagna
bianca, oltre i portali bianchi. Sono trascorsi mille anni dall’estinzione
dell’uomo. Lo stallone nero corre a briglia sciolta; un bagliore accecante ne
arresta l’impeto. «Buono Agro» bisbiglia Ueda, «si torna a casa».