Se
i diffusori dell’impianto MIDI avessero coscienza di sé mica parlerebbero. Se ne
starebbero in religioso silenzio ad ascoltare Vampire Killer o Thrashard in the Case per non dover
contaminare i suoni, pervenenti lontanissimi dagli anni dell’MSX ma laceranti, sempre,
malgrado il ripetersi di quelle sinfonie preliminari quantunque immani già nell’Ottantasette, nel tempo in cui Konami se ne usciva con l’idea di una saga generazionale.
La dinastia dei Belmont metteva sottosopra i romanzi e le pellicole del Conte succhiatore
ma avvinceva comunque, con la frusta, i coltelli, i lampi che squarciano l’orizzonte blu
notte. Nel Novantatrè Akumajou Dracula X68000 è il nono Castlevania.
Konami opta per la macchina fantasmagorica e realizza un case che è un monumento
ancora adesso, uno scrigno-monolito da un chilo che solo per realizzarlo in serie devono
averci messo gli incassi di Super Castlevania IV, che vendeva più dei lettori CD
della Sony. Il protagonista è ancora lui, l’Indiana Jones della Carpazia, il branditore
di croci sacre, il messaggero di Dio, il cacciatore di morti viventi. Lui, il difensore
della Transilvania, il proteggitore di verginali virtù. Il solo e unico Simon Belmont.
Nel 2001, quando Akumajou Dracula viene portato su
PlayStation (Castlevania
Chronicles), discreta schiera di ricercatori a malapena sa che il Giappone
dell’X68000 avesse un suo Castlevania. Atto dovuto. Solo che su PlayStation succede che
venga a mancare la pulizia dei 31kHz e che le musiche MIDI difettino in nitidezza, così
va a finire che la versione che or ora gira sullo Sharp sia di riferimento per il purista
che pure si è comprato la riedizione CD col Belmont dai capelli rosso sangue. Si ha un
giuoco di platformismo classico che evidentemente eredita taluni suoi schermi
da console targata Famicom.
Le espugnazioni spaziali sono tuttavia filosoficamente più orientate verso le inflessibilità di un
Haunted Castle, il cui livello di cattiveria era comunque
altra cosa, in sala, visto che qui si può salvare la posizione di gioco – su di un disco
vuoto, da formattare per l’occasione – e che il processo di abbattimento dei guardiani si
mantiene entro i limiti dell’umano. Un Castlevania di razza: a quadro ultimato scorre la
pergamena del castlello, un omaggio agli arcade Capcom oltre che un cliché della
saga. Che poi il ritornare in queste terre di illusione e disillusione fa storia a sé a
dispetto di tutti i riferimenti al recente passato o forse proprio per l’assunto del dover
scrivere il racconto già scritto dello scheletrame che lancia le ossa, dei corvi e gli
orchi, delle arpie. I cavalieri neri.
L’inizio è assordante. Il pianoforte di Black Mass si
insinua nella spina dorsale come un tizzone rovente nel burro, e mai come in Akumajou
Dracula il Roland SC-55 – sono altresì supportati gli MT-32 e i CM-64, che però
impoveriscono sensibilmente le musiche – suona così acuto, echeggiante, pesante di tracce
polisinfoniche da svenimento e svenamento, allucinogeno, disseminante un clavicembalo che
diventa heavy metal indiavolato nel Bloody Tears di metà avventura, nel
luogo in cui si decreta che questo capitolo IX ha nulla in meno dei micidiali episodi
Nintendo nonostante la ripetizione, la celebrazione. Il Belmont comincia ad animarsi con
dieci, venti fotogrammi in più. Fluisce superbo e giovinastro a onta degli anni di pugna
col signore del male. Le sezioni del maniero ottengono porzioni di nuove grafiche a sedici
bit e la superiore risoluzione fa avvertire il suo peso nei contrasti netti tra sfondi in
differenziale e blocchi frontali. Il monster design muove in agevolezza creature
di grosso calibro da fotografare e appendere in salotto come deterrente per ospiti, e
ricorrente è il virtuosismo della sequenza inedita, come nel caso delle lance che restano
conficcate nelle carni del nostro. Promuovere. Nello stesso anno
Dracula X: Chi
no
Rondo immette la saga in quello stato di trascendenza arcade adventure che
nel Novantasette avrebbe generato Symphony Of The Night, epperò Castlevania
X68000 può rivendicare la irripetibilità dell’unicum, dell’episodio che va provato in
edizione originale e con le luci soffuse, per ricreare le atmosfere del Settecento
imbevuto nel sangue.