Sì
ma non era la versione PC-Engine quella che conteneva più ferri. Chi l’ha detto. Bacchettate sulle manine cicciose, e se non si fosse in ansia per il cargo di videogiochi
radioattivi in partenza dal Giappone e non si fosse già scritto testamento – poiché
piuttosto che rinunciare a Shinrei Jusatsushi Taroumaru ci si immerge nel
plutonio intonando Enola Gay – si darebbe luogo alla caccia al
colpevole al fine di inculcargli con la forza il metodo projectfirestart.org di
propagazione del sapere. R-Type X68000 doveva uscire per forza, nel 1989. Che
altrimenti se aspettavano ancora l’hype verso il videogioco avrebbe iniziato a diminuire. Così,
invece, potevano inserirlo sugli scaffali a 7.800 yen persuasi del fatto che se
lo sarebbero preso veloce, i giapponesi possidenti, da che dovevano completare
la collezione degli sparatori e far vedere a quelli che acquistavano le cartucce
che erano persone indigenti. Se ne occupò la stessa Irem. Si trattò di un lavoro
di qualche settimana, il tempo di studiarsi il funzionamento del mostro e
trasferirvi senza particolare dolore il
coin-op, suono per dentro.
Altro titolo arcade di grido. Aveva fatto scuola due anni
prima per il fatto di montare il Force, un pod prominente a sganciamento che
funzionasse a barriera o come arma a distanza. Il beam era sì una innovazione,
ma restava pur sempre un raggio laser frontale. Invece la applicazione di questa palla
energetica autonoma su cui ruotano prima due, poi quattro raggi a reazione termonucleare
voleva dire rinnovare alla radice la fase di armamento in upgrade diffusa da Konami a
metà anni Ottanta. La Irem ci ha campato due generazioni col Force, al punto che
se si va a scavare nella libreria videoludica di genere della softco non si va gran che
oltre il sistematico vassallaggio agli apparecchi concepiti nell’Ottantasette,
procreatori di sequels, spinoff e cloni anche a Duemila inoltrato. Lo
sdoppiamento della R-9 in tronchi complementari coincide con la maturazione dello shoot
’em
up a scrolling perpetuo: il percorso arcade assume maggiore razionalità e la
missione dello sparo un criterio strategico reale. R-Type è l’inizio della fine delle
sparatorie ad armamento unilaterale. La scintilla dell’evoluzione del potenziamento
multiplo di Gradius. La elaborazione del principio di interconnessione magnetica
tra due pezzi di ferro fluttuanti. Eppure, è infattibile immaginarsi il gameplay
insurrezionale di R-Type al di fuori delle estetiche di R-Type.
Biotecnologie Bydo. Serpenti-macchina. La fotografia,
sigillata, dello scenario alieno si stringe ai propulsori della R-9 tracciando un
collettivo futuristico inutilizzato ancora, dentro gli schemi dello shoot
’em up.
Le tre armi in dotazione esplodono sinestetiche e in conflitto coi brandelli di sprite
contaminati, globulosi e viscidi su mosaici di circuiti luminosi fitti. Piastre madri.
R-Type è un antro di grafiche a tinte scure rimorchiante videogiochi navispaziali su di
uno stato di tensione horror – il mostro Alieno del primo quadro si
attacca al cervello – che sa di celluloide più che di schede Irem M72, sebbene
si debba parlare di hardware X68000, nello specifico. E nulla è sacrificato in fase di
traduzione. La intelligenza artificiale dei nemici, il come attaccano, il tempo di
comparsa dei bonus, le tattiche di sopravvivenza: l’intero coin-op viene copiato su di un
singolo disco da cinque e mezzo – sul PC Engine, prima di essere riposizionato su CD-Rom,
venne dapprima suddiviso in due Hucard – e in omaggio vi mettono intatta la colonna sonora
all’acido muriatico che fu leggenda in sala giochi, verso le sedici e trenta, quando la
ressa non era tale da eclissare gli altoparlanti stereo frontali. Fanculo se dopo sette
minuti ti ritorna la frustrazione che ti eri buscato all’età di anni undici. Fanculo se
il level design rigido come una lastra di cemento armato ti trapassa il fegato
ormai consunto da cicli di Thunder Force e Blazing Star assunti per
endovena. R-Type può permettersi di continuare a
significare la storia del
polverizzatore orizzontale anche dopo essere passato sotto uno tsunami.