KABUKI KLASH: Far East of Eden
di @Luca
Abiusi
Kabuki Klash ha di
suo una
realizzazione grafica abbastanza imponente da lasciar supporre che l’intero lavoro di
caratterizzazione sia stato inizialmente pensato per un OAV. Artefice unico
Racjin, che
riprende i personaggi di Tengai Makyou (RED) per consegnarli a una struttura di gioco a
pestaduro che si adattasse, a metà anni Novanta, alle caratteristiche del NEO GEO. Kabuki
Klash è un ulteriore passo in avanti verso la maturazione dell’hardware SNK,
dopo i fasti di The King Of Fighters ’94, dopo il rinnovamento delle
estetiche e delle anatomie coordinate al picchiaduro di retaggio capcomiano. Il medioevo
proposto da Kabuki Klash è quindi sfarzoso, è fashion. Gli abiti dei
protagonisti, disegnati per una sfilata d’alta moda videoludica, sono un collage
di striature Dolce & Gabbana.
Meglio definire che abbondare, sostiene Hudson col suo
roster di otto personaggi appena, ma otto personaggi che agiscono in aggregazione
– come
in Last Blade, d’altra parte – d’armi da taglio ben affilate, ma ancora dominanti
nella economia del gameplay. Due tasti per la spada (e surrogati) e due per gli arti
inferiori, i calci da assestare come alternativa agli affondo, e si ottiene la variazione
del beat ’em up SNK del «quindi puoi usare le mani oppure le spade, ma non
tutte e due» sul territorio della ibridazione, della trasformazione delle dinamiche
del combattimento bidimensionale di infrastruttura; Kabuki Klash gestisce le due fasi in
aggetto a una idea di alternanza assolutamente coabitante, che è sì collegata al
discorso del tempismo ma che determina, in aggiunzione, un percorso di strategie di
attacco che non s’era precisamente visto se non a frammenti e con metodi meno diretti, in
Samurai
Shodown. Allora vi è questo sistema di mutua elargizione di fendenti che funziona
eccome se associato alla magic gauge, una barra che appunto misura il livello di
performazione delle super mosse, quelle che figurano draghi sputafuoco, spade sputafuoco,
cose che sputano fasci infuocati. Il combattimento prende forma vivace e non scade
pressoché mai nella standardizzazione delle tecniche.
Hudson Soft mira alla qualità: a fronte della
semplificazione del combo system, che è pur funzionante per sequenze di
due o tre o quattro colpi collegati (scollegati), si è realizzato per Kabuki Klash un
tipo di mazzata che mettesse al centro lo spettacolo, l’eccitazione della variazione delle
meccaniche del corpo a corpo sul territorio del sovraccarico di materiali e, quindi, sul
pezzo della stramberia derivante le mosse accessorie, che si realizzano tutte rosicchiando
sacchetti di popcorn su spiagge ricche di soli e colori Hudson. Gli items. Succede che a
dispensar spadate venga fuori l’oggeto pensato per potenziare le nostre barre al
cioccolato viola, ed è appagante attingervi ingame per riscrivere ingame la
conclusione dello scontro, ché se si ha il tempismo del professionista di bidimensioni a
incontri si può vincere anche subendo tutto il tempo. In questo, ma anche in altro,
Kabuki Klash si avvicina a The King Of Fighters. Ma per quanto
Racjin dimostri di saper menzionare il lavoro altrui è la coreografia,
l’extravaganza del duello a realizzare l’unicità del videogioco nell’istante
in cui le spade vengono divelte dalle estremità e si conficcano in terra,
per cui si deve esser pronti a recuperare l’attrezzo onde evitarsi di dover
combattere a mani nude e di dover soccombere. L’arcade è vario anche con il
limite del limitato numero di quadri, in quanto perspicace sovviene il
sistema di performazione non troppo frastagliato, non troppo elementare.
Hudson vince (e avvince) quando circuisce il manovrante con la
distribuzione, l’esibizione di una forma di gioco istintiva e comunque
approfondibile.
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