MARBLE MADNESS di @Luca
Abiusi
È bastato
relativamente poco: strutture a labirinto, biglia e sistema di controllo
con trackball. Eppure Marble Madness parla di idee
nuove, vistoché prima dell’84 mai nessuno si
era arrischiato nel videogioco a tocco analogico completo. E sì che v’era stato
Breakout, ma lì ci si limitava a muoversi sopra e sotto: l’alternativa
dello strumento scorrevole rivoluziona i meccanismi tradizionali, per andare a
esperire su territori grossomodo vergini, e il risultato davvero convinceva
perché sembrava che la cpu non potesse poi barare più di tanto, ché se avevi le
dita sensibili stava a te e a te unicamente. O quasi. Il riscontro fu istantaneo: pressoché
immediate sopravvennero le conversioni per i sistemi domestici (port X68000
degno di plauso) come i riconoscimenti della critica di settore. E poi vi era anche la
cosa del ritorno della Atari sui macchinari arcade, dopo i tentativi degli anni ’70.
I quadri sono verticali. Per cui lo scrolling
agisce verso il basso in funzione del rotolamento della sfera. E si deve operare d’intrusione, per superare indenni l’ostacolo del trampolino, il tunnel,
il precipizio, la pendenza di settanta gradi. Le vite sono infinite, ma vi è il problema
del tempo. Che è serrato: a ogni errore commesso il cronometro sorbisce
secondi preziosi a forzare il velocizzare dell’azione, così a ridurre,
contestualmente, il margine di rischio accordabile al controller, che è sensibilissimo,
che risponde percettibile a ogni minimo imprint. La plausibilità del moto di
rotazione della biglia eleva la qualità delle manovre quando vi è da seguire chirurgici
la segnaletica di percorso, ma sorge pressoché subito il dilemma sulla strategia da
applicare di fronte agli ostacoli. Operare d’istinto, confidando sul principio di
casualità, o ponderare ogni mossa innescando il fluire del tempo? Il fardello è di chi
manovra, ed è giusto partendo dalla possibilità di manipolazione meccanica e dinamica
dei sistemi di gioco che Marble Madness evolve in direzione del procedimento cerebrale del
puzzle solving. Atari mette in prominenza tanto il fattore abilità quanto la
variazione del ragionamento, e ambisce a creare la definitiva simbiosi tra giocatore e
trackball.
Carpite le funzionalità del rotatore, l’esercizio di inerzia applicabile alla sfera
verrà naturale.
E non si è parlato ancora di questo mondo spaziale, che
squadrato diffonde l’intensità delle luci, le strutture che oniricamente
dismettono il
reale, e dopo creano il pianeta nero extraterrestre. Marble Madness è il caos
irrazionale. Il castello di insenature e di cunicoli e ponti sospesi volge in forma
di piramide-labirinto per poi concepire l’intelligenza suprema, la A.I. del level
design di assuefazione che prima concede quartiere e che poi chiede dazio innalzando
il grado di complessità, che mirabile nasconde le insidie che ti fanno cadere, e sempre
nella stessa zona, dove c’è il fosso. L’isometria attira, dispone dipendenza. E fintanto
che il cerebro saprà reggere, la biglia continuerà a gravitare per torrioni e incavi
di colore stringa, blu e giallo, rossi a quadratini di febbre cromatica come peste, sensazione
di pulizia asettica che rende il paradosso della visione allungata a grattacieli, mistero
poligonale, bidimensionale. Silente. Formicolio di membra, di qualcuno che
si sente prigioniero
di qualcosa, aumenta anch’esso col ripetersi di musiche anestetiche,
cinestetiche,
visionarie. La biglia scorre e la mente aliena che ha reso il tutto sembra
divertirsi a stringere l’umanoide nella sua morsa di trappola per topi in forma sferica,
abbassamento di pressione. Non mi sento granché bene. Il livello di difficoltà è non
saprei, pertanto no, di fare progressi con il singolo gettone non se ne parla. Dovrò
morire prima di arrivare, e alla fine non ne caverò neppure un grazie. Ma
però grazie Atari, eh. A distanza di venti e più anni ti meriti che qualcuno ti riporti in vita la
sfera marziana, e i palazzi.
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