TEHKAN WORLD CUP di @Luca
Abiusi
In quanto a Tehkan World Cup si racconterà di
accadimenti del 1988, e si racconterà inoltre di quando si era muniti di brufoli
e si doveva apprestare sale giochi come il Palladium. Ci stava il mondo nel Palladium.
Anche i cabinet a doppio schermo che non servivano a niente. Fu lì che avvistai il cassone
in stile tavolo da cocktail, piuttosto anomalo, con a display un
interessante gioco del calcio che inquadra dall’alto e che per controlli
tiene due
sfere incassate. La cosa mi coinvolse al punto che la paghetta
settimanale smise di essere sufficiente, e dovetti quindi attingere agli extra
trafugati alla nonna, e ancora al fondocassa degli extra trafugati alla madre.
Tehkan World Cup è
immagine del periodo in cui accade: pupazzi e campi verdi, senso di dipendenza,
meccaniche apparentemente arcade. Vi sono i necessari trucchi che portano
inesorabili al gol, come il tiro in diagonale sferrato prima di entrare in area,
o come il cross al centro con il giocatore che interviene al volo insaccando con
potenza. Uno stile di gioco estremo. Ma bello.
Vi racconterò di colui che, alla sera, occupava
quel cabinato a oltranza. Stava sempre lì. Avrà avuto non meno di venticinque o ventisei anni,
barba, capelli lunghi, sigarette a ciminiera. Leggende metropolitane lo volevano
invischiato in certi affari di droga e prostituzione, ma non ho mai creduto a
quelle voci. Quando entravo in sala, generalmente dopo le sei, lui era già lì. Mi mantenevo
naturalmente a debita distanza, e pur assistendo ammirato al suo scientifico
divellere di porte avversarie mentre che si teneva la Marlboro tra l’indice e il
medio esercitando sulla trackball con le tre dita rimaste una sorta di virtuoso
movimento a scatto, non avrei mai osato
sfidarlo. Perché si dileguasse, lasciando campo libero, si doveva attendere anche
più di un’ora, un’ora e mezza. Ma era un periodo glorioso. Quel
videogioco del pallone mi parve fantasticissimo con i suoi tiri così potenti e la velocità dei capovolgimenti, a conferire al tutto un nonsoché
di realistico e avveniristico, in quanto che per i tempi la migliore aspirazione di un coin-op
calcistico poteva in effetti determinarsi nel momento in cui lo stesso
rivendicava a sé l’elemento della pallonata che arriva forte, delle porte, delle reti
che non appena che hai segnato si vede che si scuotono. In altri termini, Tehkan
World Cup.
Infine il tizio prende e se ne va. Al che,
immerso in una nube tossica, inizio la scalata verso la conquista della coppa
del mondo. Ha luogo il primo match contro il team più scarso immaginabile: lo
sommergo di goal e passo allo stage successivo, riuscendo a sopravvivere fino
alla quinta squadra e a questo punto, la sagoma di quel sinistro personaggio mi
si materializza davanti. Troppo tardi per escogitare un piano di fuga: si
sarebbe preso il mio scalpo, letteralmente. D’altro canto avevo ben visto di che
cosa era capace. Sapeva fare ogni cosa lui, i trick e i track più impensabili.
Era in grado di costruirsi situazioni da goal impossibili da un fazzoletto di
campo intasato di giocatori. Una volta, aveva sconfitto uno senza utilizzare il
tasto del tiro: gli era entrato in porta con tutta la palla. Ma gli tenni testa. Eravamo sul 2 a 2 a quaranta
secondi dalla fine quando mi vedo a lanciare l’omino che si trova sulla fascia e a
scagliare una di quelle sassate memorabili in cui il pallone buca la rete
e poi svanisce oltre le tribune. Quindi un compagno del nostro, detto “u giappoun” (il
giappone), esponente di rilievo nel settore narcotici, irrompe con un «t fè
batt da nu criatur» (ti fai battere da un bambino) fatto apposta per
scatenare reazione, e non che il nostro bisognasse di sprone, lui che tutto
poteva, ma nello stesso istante il nostro realizza uno di quei goal che poi dici
“naa, è uno scherzo”, presto aggirando sulla linea del fallo laterale e
insaccando con l’uso della Forza. Tre pari a
dieci secondi dalla fine: potevo ancora farcela. Muovo sulla tre-quarti, dribblo due
difensori, tiro un diagonale che se poco poco entra in porta viene giù tutto lo
stadio e tack, la palla impatta il palo,
torna alla ciminiera oltre il centrocampo, e mi piego. Questi, inesorabile,
penetra in area di rigore, effettua un dribbling, un altro, un altro ancora e infila con
un piazzato radente il palo. Aveva vinto. Non poteva che finire in
questo modo eppure, in quel giorno del 1988, quella persona che si diceva non
parlasse mai, e che mai avesse profferto verbo con alcuno, disse qualcosa.
Qualcosa che sul momento non capii e che poteva somigliare a un «cà m stiv a
batt» (mi stavi per battere), ma che bastò a farmi sentire un uomo.
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