POKER LADIES di @Tommaso
Torresi
Evvai, bella lì, figata, ecco arriva l’ennesima idiozia di Capcom, che si
adopera a vendere le vecchie rom degli anni ’80 al grido di «sì! fottiamoli
ancora sti rimbambiti utenti fess-gen», e le scimmiette si esaltano pure,
come se gli emulatori e le classics collection non fossero mai esistiti, e
ne vogliono ancora, di queste bieche operazioni commerciali. Saremo pure dei
vecchi tromboni sporcaccioni, ma lo vogliamo dire: un tempo anche le bieche
operazioni commerciali avevano tutt’altra dignità e savoir-faire, e nell’89
accadeva ad esempio che nelle sale di tutto il mondo spuntasse fuori questo
Poker Ladies, giochino sexy mangiasoldi che riciclava le donnine di un
mahjong hentai dell’anno precedente, e che dietro tale spregevole manovra,
attuata chiaramente per lucrare sui più bassi e perversi istinti di tutti
noi ragazzini grandi e piccini del pianeta, ci fosse proprio Capcom. Ma mica
quella di adesso. Erano i tempi della fastosità, della classe, di Ghouls’n Ghosts e Final Fight, e così succedeva che Akira Yasuda, il genio dietro al
chara-design di molti futuri capolavori della casa di Osaka (SFIII Third
Strike tanto per nominarne uno) prestasse la sua arte per i disegni e le
animazioni di un banale videopoker, rendendolo istantaneamente un classico.
La meccanica pokerista del titolo è di per sé insignificante, equiparabile a
quella delle macchinette sulle quali i vecchietti si sputtanano la pensione:
da una mano di cinque carte scegli quali cambiare per fare il tuo gioco, con
meno di coppia vestita perdi una vita, altrimenti ottieni dei punti in base
al peso della mano. Ognuna delle nove ragazze ha tre step di punteggio
raggiunti i quali si priverà via via degli indumenti. Il gioco è ovviamente
tarato per fregarti tutta la paghetta, non dà spazio a nessun tipo di
strategia, ed in più ti prende palesemente in giro con la sua tendenza a
dare con allarmante frequenza quattro quinti di colore o scala reale che non
si concretizzano mai, salvo poi uscire magari un full servito a cui però
seguono svariate mani di nulla fino all’inevitabile game over; ma è chiaro,
non si pretende certo gameplay da un titolo del genere. Quel che conta sono
le ragazze, e qui lo stile di Yasuda, pur ancor da sgrezzare, eccelle: i
nove personaggi in stile manga sono studentesse, ragazze acqua e sapone,
femmes fatale, donne manager che si rivolgono al giocatore con frasette
allusive, certo digitalizzate male e recitate peggio, il che non non lo
diremmo un difetto data la natura naive del titolo, e sono dotati di forte
personalità e carisma – non stiamo parlando di Solid Snake – con ciò si
intende curve al posto giusto, tette e culi paradisiaci, facce angeliche,
pose oltre modo provocanti che spaziano dal finto-distratto
all’innocente-stupito al porno-volgare, e per fortuna che ogni tanto qualche
immagine dall’anatomia incerta ce le riporta al loro stato di disegni su uno
schermo. Anche il contorno ha un suo stile che differenzia il titolo da
altri squallidi videogiochini erotici: vi sono le carte che escono in
sequenza mostrando il dorso per poi girarsi con l’effetto sonoro, il sipario
che fa da preludio al denudamento, i maglioncini crema, le minigonne jeans,
i tailleur, le acconciature, le fogge degli abiti; tutto ci riporta a una
dimensione ancestrale, quell’epoca senza internet e videofonini, dove al
posto di youporn vi era il postalmarket. E poi il culmine dello stupido
giochetto, l’infame colpo di genio, l’apoteosi cripto-masturbatoria: al
completamento del terzo step di svestimento delle fanciulle sarà possibile
interagire con esse tramite la pressione ripetuta, forsennata, onanistica di
un pulsante che si traduce a schermo in serpenti che leccano capezzoli,
catene che allargano gambe, inquietanti arti maschili privi di corpi
maneggianti corpi femminili, donnine che mugolano di godimento mentre le
loro mutandine sono illuminate da torce a pila o bagnate da gocce d’acqua
che colano da siringhe, un delirio di fantasie giappo-pruriginose e
innocenti perversioni non penetrative che, siamo sicuri, ha rappresentato
per molti una bizzarra forma di educazione sessuale.
Succedeva di tutto davanti a quello strano cassone senza joystick. Grassoni
che sudavano. L’attizzato insultava quella “buttana troia, con sto poker ti
sfondo”. Quello che saltava le immagini statiche perché gli interessava solo
“la mossa”. Bambinetti di dieci, undici anni che facevano a turno formando
una catena umana fino al banco per rifornirsi dei pezzi da duecento
necessari al continue. Una ragazza sulla ventina giocava solo alle carte
premendo poi cancel in tutte le parti osé. Un’altra invece ci dava dentro di
brutto con il tasto de “la mossa” sghignazzando fra i grugniti degli astanti
quattordicenni. Un’era morta e sepolta, che nessun servizio di digital
delivery ci riporterà.
|
|