WAR-ZARD di @Luca
Abiusi
Il primo
videogioco a far uso
della
mirabolante CPS-III, introdotta da Capcom nel corso del ’96, non poteva che essere un
picchiaduro. E a distanza di anni si capisce perché un adattamento su console, foss’anche un Saturn
provvisto di 4MB di Ram aggiuntiva, non avrebbe potuto verificarsi anche per War-Zard,
che ancora non possedeva l’incredibile numero di fotogrammi di uno
Street Fighter III.
Appurato ciò, nel ’96 War-Zard diventa il più rilevante videogioco bidimensionale
da Capcom prodotto per le avanzate tecniche di programmazione consentite dal
nuovo hardware. Quello di Capcom è di fatto un videogioco d’animazione. In
ragione di una certa fluidità. Del tipo di colorazione. Del character design.
Lo si è testato su di un emulatore CPS-III ben restituente l’arcade, tanto per
consentirci un più o meno completo esame
delle sue meccaniche come delle grafiche. Le quali ci risultano virtuose.
La struttura degli incontri è in War-Zard non
omologabile. La stringa d’energia diventa unica per protagonisti e nemico,
mentre in caso di sconfitta i danni inflitti o subiti si congelano per rivelare una
inattesa attitudine survival. Durante gli scontri ci si contamina
di ruolismo. Si avvisa un sistema di conseguimento volante degli items a facoltà magiche,
che sono poi utilizzabili a supporto delle mosse speciali. Anche se il metodo di
trasformazione delle
movenze è distribuito sui classici sei tasti, in War-Zard non vi è reale distinzione tra
pugni e calci in ragione del generale insistere verso posture di
mistione. Da
questo punto di vista il picchiaduro è simile a
Vampire Savior
(vi è anche spazio per alcune apprezzabili citazioni), che viene preso a modello per
introdurre un tipo di combattimento che risultasse parallelo al
convenzionale corpo a corpo. Il combo system consente attacchi multipli
di
alternanza agli attacchi standard a doppio quarto di luna, come per le super di
Street
Fighter Zero. Inoltre, e può esser questa una interessante intrusione
sulla scala del combattimento monodimensionale di Capcom,
il
lottatore sarà in grado di performare una fatality, una mossa definitiva che
quando prodotta freddi il nemico in atto cruento. È in proposito spettacolosa la
fatality di Kenji
(Mukuro), che con la sua katana divide il mostro di turno in due. La
variazione sul colpo eseguibile dal singolo lottatore è in contrasto con il
numero dei protagonisti stessi, in totale quattro appena.
Eppure War-Zard non investe sulla quantità.
Tessa, Leo, Mai Ling e il menzionato Kenji configurano un beat ’em up
di longevità concettuale, marziale, non che di sottile apprendistato. Gli opponenti si
concedono in dosi investigabili. Diversificano. E comunque si piegano
all’infrastruttura dei livelli per operar corollario di mosse tematiche –
vedi i fantasmi sfinge del quadro egiziano – che siano manifesto di una idea
di scontro armoniosa, per cui la penetrazione a
freddo del fruitore umano sarà il veicolo con cui
perseguire simbiosi tra controlli evoluti e immagini simmetriche, perfette. War-Zard elegge la pura estetica come
punto di raccordo della tradizione neoclassica capcomiana all’abolizionismo di
Namco, nella diffusa volontà di reprimere il prototipo del pestaduro a crude mani
operando un raffinamento della grammatica d’esecuzione. Il motivo ornamentale vede
quindi soggetti, disegni, movimenti spingersi fin quasi allo stucchevole, tra evoluzioni cromatiche trabordanti
e volute esagerazioni di coreografia, nel quando il fondale innesca un clamoroso parallasse animato
e di sfumature, a computo di effetti di luce in trasparente alpha blending. Lo
zoom è rapido, potente. L’apparato laterale
evidenzia il pixel, e ancora il minimo intarsio anche a panoramiche estese, a volere offrire all’astante una
qual fissazione per i dettagli e cose accessorie che le persone fuori da
Capcom non vedrebbero. Non altrettanto memorabile ma comunque supportante
il versante iconografico il suono, che eccede per pulizia e profondità del
tono, e che si concede musiche atmosferiche di fantasticherie, giuochi di
ruolo.
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