Assai
più che un film da incasellare nella circoscrizione delle commediuole leggere in
cui introdurre signorina capricciosa fru fru a rendere un tornaconto di frizzanteria,
ragionando sul fatto che Ôtomo, noto elettricista, doveva prima finire di
risolvere i problemi che aveva sottoposti alla Nostra cortese attenzione
pressappoco verso il 1989, quando le macchine si coalizzarono ai tessuti e
allorché il regista stava lì lì per terminare di rivedersi l’ultimo fotogramma
dell’ultima sequenza di Akira, già iniziando ad accusare astinenza da fili rossi
che si aggrovigliano a stritolare le carni e le ossa delle persone. Quel che è
certo è che non poteva finire lì. Nel 1990 Roujin Z è un’opportunità di
ulteriore studio sulla possibile sinergia tra organismi e macchine. Per la regia i produttori avevano scelto Hiroyuki Kitakubo, un volpone
laureato con laude in elettricismo e adatto al ruolo, avendo in più di
un’occasione affiancato Ôtomo e le sue saldature molto pericolose, rimanendone
illeso. La collaborazione tende a funzionare talmente bene che si ottiene,
durante visione, questo equilibrio formale che vede da un fronte armarsi la
minaccia dei computer senzienti e dei cattivi che gli hanno dato forma e
dall’altro lo schierarsi di buoni-stereotipo difensori della giustizia che
non insultassero oltre il dovuto l’intelligenza del Maestro. Che, a scanso
di equivoci, se ne andava in giro con un paio di pinze e una buona saldatrice.
Potrebbe essere che l’attrezzo computerizzato che
doveva determinare l’autosufficienza del vecchietto, tra un’intrusione in
ospedale e conseguenti scorrerie, diventi in verità una cosa di trasformazione
che lancia i missili. Non poteva mancare l’auto-citazionismo verso la
metamorfosi di Tetsuo, e neppure il ghiribizzo del dover mettere in mezzo Hal
9000, fintantoché Kubrick se ne stava su Eyes Wide Shot, così per non
rischiare che l'affronto alle istituzioni venisse in qualche
modo smascherato. Che affronto non è, se sai guardare meglio. L’uso della
divagazione cinematografica è sottile. Nondimeno acuto nel dissipare le insidie
di un eventuale recesso di confidenza nei confronti di preesistenti idee, a
iniziare da Robot Carnival arrivando per Black Magic M-66, ma in ugual modo
lucido a suggerire contingenze di coerenza sulla testualità portante, che
quantunque di nuovo contrita all’imminente ecatombe tecnologica si fregia di
potere attingere a una linea di colore tiepido con delega di non aggravamento
del sottotesto. Che chiede di rimanere di tratteggio mistico sul defunto-bug
repentinamente insorto in veste di voce digitalizzata rassicurante, nel mezzo di
una masnada di rumorose comparsate di certo folclore giapponese rampante cui
piace fare gli scherzoni, qualche gag di erotismo di passaggio così per
vivacizzare l’ambiente e guardare al domani con rinnovata fiducia per i
governanti, salvaguardie della madre patria.
Il film varrebbe il tempo speso. Gli si riconosce
all’infuori dei summenzionati meriti il disinvolto cambiamento di cadenza del
girato, fatto non di scarso conto nello standard della pellicola
d’intrattenimento urbanistico in cui per assolvere il compito bastava che si
disegnasse sfondi standard di palazzi e due pupazzi, e che si ritrovasse a
raccordo di sequenze gli asfalti dei quartieri futuristici di Shinjuku-ku in un
fermo immagine di media compensazione. Ma Roujin Z richiede il dispiegamento dei
mezzi, poiché dobbiamo ricordarci che dietro al progetto c’era quello che aveva
scritto quel film di motociclismo metafisico ambientato nel 2019 a cui non si
poteva rispondere col compromesso del fotogramma statico persino a camera
soprelevata, durante i segmenti aerei di colluttazione voyeur dove si
realizza che hanno dovuto investire fior di denaro fresco giusto per
fluidificare l’aggiornamento delle sottostanti strutture, interamente scalate a
inchiostro per la tempestiva assenza di facilitazioni digitali; Roujin Z è la
contromisura allo stress da sovraccarico di elettromagnetismo, un periodo di
riflessione in cui percorrere strade alternative di guasconeria e componenti di giocosità,
una situazione come piano bar in amicizia che però non deve per forza degenerare
nella farsa, anzi: il finale, velatamente (e volutamente) ridicolo, avrebbe
raccontato che i lavori non erano mai stati del tutto interrotti – ci verrebbe
in mente Manie-Manie: I
racconti del labirinto, cui Ôtomo vuole parametrarsi – e che
presto, diciamo entro qualche anno, si sarebbe presentata l’occasione del
ritorno alla fantascienza seria. Una storia steampunk...