Che
sebbene ecco vedi non tanto quanto i rospi parlanti di un Wizard Barristers –
esibente, contuttoché, una premessa da action movie su treno né pure se
di antologie del cinema di Tsui Hark – quest’original anime video
datato 2000 si regala un Umetsu di obiettivi a bastanza complementari, burlieri
già quandoché la cyberbambola sessuoide innesca le reazioni al plastico, fin
all’impiego casualmente disordinario che si fa
del massacramento, nell’ordine di una connotazione troncante, di stremità e
bulbi oculari circa forse
a misura di A-Kite, e se non
peggio, ma in uno spazio di laconicità che è di calci acrobatici sospesi
nelle arie, roteanti, nel durante a bolge di fucilami attinenti ingegnerie
metriche proprietarie, tali che a un concerto di musica lirica o a un
congresso di guardie del corpo come banche del sangue ambulanti, e le direzioni
di camera sono calcolate: versificano, sotto luce, in un incirca di celerazione
geometristica risolvente allo sfasciamento di calcinacci e pareti,
allorché il regista intende conseguire un’animato di scoppio oggettuale, o
più di preciso di scomponimenti cranici, a suo uso preludenti a vertiginevoli cadute dal
cinquantunesimo piano o giù di lì.
È che non si fa di meno del premonire gli stati
transitori di shock, dai quali trafila ancora uno schermo di paralisi, di trauma
e vaga psicocinesi; tutto considerato, il tono dell’ultraverso futuristico di
Umetsu, ippocampale, deve rifocillarsi di angosce, lacerazioni, e di fotografie
sovraimprimenti, quindi che allora l’anime non reca eccezione pur esimendosi
della giustificatura consequente, e disimpegnandosi, non che facendo per cui un poco di
crossover
autoreferenziale – nell’inizio, dove parlano di omicidi e una ragazza a Noi nota,
passante per di lì, fa di volgersi alla cinepresa – di mezzo a una conoscenza
contabilistica di certi tempi umoristici, e rocamboleschi, pari ai generi
criminaleschi domiciliati a Hong Kong, nei medi anni ’90, benché invero Mezzo
Forte elevi la sua scrittura e le sue battute, non banali pure nel quando
s’indulge all’atto, da cui il malinteso di ridurre l’opera di Umetsu all’hentai
trastullatorio sancibile di scomunica; al contrario, il film s’intrattiene su
questo allenato commedismo danzante, che è un po’ circense, dal taekwondo al
repertorio di mosse ubriacanti di Jackie Chan, peraltro funzionali a una
microregione di trame parallele da lasciar scoperte. E dirimere per un sequel
in tredici episodi.
Valse il sacrificio di setacciare il frame,
così a intuire che non ne servissero tantissimi a quest’ordito di scelte
coloristiche illecite, e feticizzanti di assai oltre l’onere del disegno, a
largo
beneficio di un porporato di nevrastenia a macchie e sistemi di forze, e di
contrappesi da convertire a coreografismi arancio-spandex veramente
stringatissimi, che Noi intanto si continua fermamente a credere che la miglior
dote registica che Yasuomi Umetsu ha portato al dōga eiga nazionale – e per
diretta conoscenza alle contemporanee arti cinematografiche – conviene
all’irroramento del seme voyeurista, germinante di sopra al rigorismo e
prosperante rispetto a un imperativo testimoniarsi ai registri dell’exploitation
sperimentale, or che anzi di prostituirsi all’erotismo da banco Mezzo Forte,
attraverso il Morse elegante dell’autore, spicca di espressioni e
suggestionamenti, e va a superare la classificatura del simpatetismo di gregge,
staccandosi dalle culture basse, adolescenti e sbrigative delle fiere del
fumetto. Ma si troverà il modo di farlo vedere, a questi qua. Diremo loro che si
tratta del film di Violet Evergarden per poi zac, ritrovarci diritti alla
sequenza del threesome coi brutti ceffi, tra momenti di finto
panico e spontanee erezioni, e poi magari tempo due anni, acquisita la maggiore
età, succede che ci ringraziano. Nei primi 2000, Mezzo Forte sa di emancipazione.
Dell’animazione. Del classico d’azione. E di certa evacuazione hardcore che dice
di letteratura. Scrive pagine di cinema.