Questo
nastro VHS radicalizza ben di fuori del fotogramma della pornografia che è tipico del
fabbisogno di ogni giorno, giacché poi sembra che l’oscenità si trasformerà
entro un batter di ciglia in un orrore cui possono al limite attingere i maggiori di anni 65, purché accompagnati da un genitore,
o da un’autocertificazione scritta con cui si dichiara con la presente di essere
a conoscenza delle complicanze cardiorespiratorie che la visione di
Urotsukidōji: La leggenda del Chojin potrebbe arrecare con una percentuale
d’incidenza del 75%, da valutarsi caso per caso. Nella primavera del 1994
venimmo a sapere dell’esistenza dell’anime di Hideki Takayama – un
fanatico dell’azione: tra l’84 e l’85 aveva realizzato per Data East gli
spettacolosi laser game Thunder Storm e Road Blaster – per volere del
fato, non avendo di meglio da fare che starcene in classe col TV Sorrisi e
Canzoni per le mani, ma poteva anche trattarsi di Novella 2000, non è che
possiamo ricordarci di tutte le cose accadute quando eravamo in fasce, ma il punto è che c’era
questo coupon “Granata Press” di prevendita in contrassegno che sembrava
osservarci, come se a chiederci di compilarlo velocemente, visto che si trattava
dell’anime di Urotsukidōji, un
manga che il Nostro compagno di banco maniaco sessuale ci aveva fatto leggere in
regime di toccata e fuga appena venti giorni prima. Dovette comunque trattarsi
di una stampa amatoriale, dato che non si capiva chi era l’editore.
C’erano i demoni da cui fuoriuscivano tentacoli a forma di cazzi. Era tutto un
copulare di lesbicità e teste che esplodevano.
Ma l’anime è più blasfemo.
Quantomeno nell’edizione internazionale non censurata su cui Granata Press ebbe
l’ardire di impuntarsi, «o quella, o non se ne fa niente» si dice che dissero ai
tizi di Manga Video ch’erano in posa con le forbici in mano, ma intanto
l’affrancamento dal moralismo e dal meccanismo dell’edulcorazione dell’opera
animata, neanche se questa dovesse per l’appunto risultare conforme a una
precondizione estetica che non comprendesse né talune virtuose cangianti del
sesso, né alcuna ombra di trasfiguramento dell’orrore svolgeva il suo decorso, e
nessuno avrebbe fatto in tempo ad arrestare l’oltraggioso uragano di
penetrazioni multiple e atti di perversione inaudita, neppure quelli che
storcevano il naso sulla presunta gratuità della messinscena, sottostimandone
l’avviso destituente rispetto alla venuta di questo Dio Supremo che si masturba
sui cadaveri: l’idea di un redentore cui
non frega assolutamente nulla dell’umanità, degli “uomini bestia”
e dei mostri infernali rispondeva a un che di rivoluzionario sul versante cartaceo ancora,
seppure è invero col tramite registico di Takayama che quest’idea evolve nella
risoluzione semantica dell’anime, il cui genere veniva insignito
dell’apostrofazione delle immagini destrutturanti, che di per loro avrebbero reso
all’ex “soggetto cinema”, ormai disumanizzato, il suo massimo resistenziale.
Il secondo OAV della trilogia è quello dove
s’intuisce che non se ne uscirà illesi, in forza della cattiveria insostenibile
del momento (centrale) dell’evirazione, telecamera che riprende dal basso a dare
sfogo all’idea di esser Noi stessi a decidere per la rimozione dell’organo
riproduttore malfunzionante, se pure a vantaggio di un supermembro di quaranta
centimetri che a sentire il mostro schifoso che ce l’ha dato conferirebbe
superviolenza e importante sex appeal, a patto di non dare credito alle
controindicazioni scritte in piccolo sul prepuzio con le quali l’esercente mette
in guardia il destinatario finale su secondarie questioni di durabilità e vaghe
possibilità di sfaldamento precoce della protesi suddetta. La caduta, del membro
surrogato e degli eventi che gli succederanno, sarà inarrestabile. Takayama non
ne vuol sapere di trattenersi al caso i bambini non volendo stessero osservando
e ci va giù pesante con la mannaia sui divisori dei tre mondi, che non potranno
fare altro che cedere per non fare attendere oltre L’orgia Suprema che il Chojin
stava pianificando da tremila anni, una festa di stupri e di sterminio di massa
cui si è invitati a partecipare in forma attiva e passiva, che la differenza sa
esser minima in questo territorio subumano di inversione e pratiche sessuali
medievali. Al musicista Masamichi Amano va dato atto di aver creato un miscuglio
di pop sintentico e pianoforte heavy metal che sa disorientare, nel pieno della
visione, e atterrire intorno all’apice, mentre si soccombe al delirio.