Il
videogioco Dragon’s Kingdom irrompe nel Novanta sotto forma di
evoluzione del vardanesimo, che nell’Ottantotto – e per mezzo del
Vardan – fu movimento
italiano underground osservante il capcomismo, che a sua volta era la corrente
di programmazione giapponese in cui si raccontavano gesta d’eroi medievali e
demoni. Seppure al tempo di Zzap! non gli
venissero riferite parole gentili il videogioco è un notevole esempio di
tecnica. Noi si ritiene ancora che venne commesso
un errore di valutazione davanti alla dignità hardcore di codesto Dragon’s Kingdom,
che è gioco a piattaforme dalla sgorgante austerità, tributo autoriale verso
un tipo di struttura addestrante il diritto del gameplay al pattern.
Evidentemente prescritta, la difficoltà degli schemi a scrolling degno di
nota sarà
paradossalmente il fondamento dell’opera, nonostante e forse anche per merito della
progressione algebrica che non concede nulla. Il titolo della Genias ostenta
gli elementi dei coin-op più radicali, di quelli che per arrivare all’ultimo
settore si deve consumarsi gli intestini, e forse nemmanco si abbatte il
guardiano. Però vi è incantesimo. Lo strumento che rende estraneo il luogo
del travaglio e avvincente l’atto della schermaglia.
Sul gameplay di Dragon’s Kingdom si potrebbe
discorrere e dire, ma senza comunque ricavar soluzione all’inizio, quando è
mediamente gestibile, ma invero si è sentito dire alcuni in merito a un
problema di eccessiva
semplicità, sebbene questi gli concedessero poi un discreto deflusso dell’azione. In verità
si ritiene
che il titolo rivendichi un suo cliché di salto e di sparo di spade, lance,
e che sia interessante. Certo, l’impossibilità di abbassarsi rende assai
problematico lo scansamento nel mucchio, e si deve in caso fare gli
straordinari, esercitare maniacali il pattern. Ed è possibilmente questa
mancanza che mette in discussione il platformismo del Frabetti, che in ogni
caso rimane avvincente, avvinto al manuale del videogioco a piattaforme, ché
l’originalità è altra storia. Dragon’s Kingdom attinge senza pudore ai primi
due capitoli della saga cavalleresca di Capcom quando vi estrae la struttura
e gli schemi, ma altresì inserisce qualcosa di
suo, tra una riga e l’altra di codice: il programmatore ha sicuramente pensato di non arrischiarsi
oltre il collaudato mirando all’assuefazione del videogioco rudimentale. Si
avrà modo di adoperare le armi che erano state di Arturo, sicché scure, lancia
e una palla di fuoco che però in questo caso si rivela assai efficace, al contrario di quanto accadesse
in sala, dove verga e pugnale erano le uniche opzioni accettabili.
Dragon’s Kingdom risulta tecnicamente
rigoroso per design dei livelli
che attesta il fantasy e corrobora i contesti horror dei demoni che
rapiscono, i luoghi infestati. Sarebbe d’esempio per le nuove generazioni di
programmatori lo stage della foresta, impiegato come sovraccarico
di stili e di colori, o anche la prima fase del secondo quadro,
impreziosita da soluzioni visive e fiabe (fantasmi crociati che vengono
incontro mentre il sottofondo musicale riprende il tema del
Golden Axe made in
Sega). E le citazioni, continue verso i classici del genere e non,
agguantano il culmine nella terza frazione, in cui fa comparsa un fondale di
considerevole parallasse, preso pari pari da
Hawkeye. Il prodotto ultimo fa in modo che il
rimescolamento degli oggetti essenziali del videogioco di genere si affermi
ad hoc proprio a determinare l’action game di assoluto consumo, ludico
sebbene intriso di mestiere. Può
dirsi riuscito l’intero compartimento sonoro nelle fasi ingame,
malgrado una certa ripetizione delle cantilene, ma già attraverso il motivo
di caricamento – edizione cassetta, realizzato da un compositore esterno – si tende a scalare vette importanti per il SID del Commodore 64, con
questa traccia a voci che si sovrappongono, di avvenenza e ritmo, chitarra
elettrica, che si vorrebbe inserire nelle librerie dei suoni dell’otto bit,
a preservazione.