Dov’ero
rimasto. Ah sì, macchinina.
Da non confondere con machinima uh-uh. Il macchininismo era un’ossessione:
macchinine che correvano su pavimenti e parquet, moquette e tappeti,
giardini e spiagge; schiantate sui muri, volate giù da balconi, vi erano
quelle di plastichina sottile che si frantumavano dopo una manciata di
minuti, e quelle indistruttibili di ferro massiccio. Chevrolet Corvette,
furgoni dell’A-Team, Tyrrell a 6 ruote – protagoniste di mille avventure a
metà tra Supercar Gattiger e le gesta di Senna e Prost. E poi certo, c’erano
i videogiochini di macchinine con i quali emulare gli eroi delle corse in
tv, senza patema di distruzione della collezione di macchinine, e dunque non
ce ne facevamo scappare uno, certo. Fra gli altri vi era codesto F-1 Dream
che non appariva granché eccitante, deprivo di volanti e pedali,
esteticamente per niente scintillante, stava lì in un angolino desolato e
solo di tanto in tanto un tizio occhialuto piuttosto anziano, tipo 19 anni,
ci passava delle mezz’ore; però nelle schermate di “insert coin”
campeggiavano la scritta Capcom e le facce digitalizzate di quei ben noti
piloti della domenica, seppur con ridanciani nomi storpiati: non ci si
poteva di certo esimere.
L’impatto iniziale è quantomeno spiazzante; se da un lato il giochino, pur
con le sue automobiline super-deformed, si mostra fautore di un certo qual
realismo emergente dal credibile design dei circuiti, dalla possibilità di
opzionare un motore turbo o meno, dall’implementazione del pit stop nonché
del time trial per decidere la posizione sulla griglia di partenza,
d’altro canto i primi giri in pista rivelano un ostico sistema di manovra
discostantesi alquanto dallo standard de facto dei corridori
dell’epoca, per cui ci si aspetta di utilizzare i due bottoni a guisa di
acceleratore e freno, e lo stick per sterzare a sinistra e destra come se ci
si trovasse a bordo del mezzo; così facendo, la macchinetta sembrerà del
tutto incontrollabile, ruotando impazzita su sé stessa senza mai prendere
velocità. Piuttosto si tengano premuti i due pulsanti come fossero le marce,
dunque prima l’uno, poi l’altro, poi entrambi per attivare il turbo, e si
manovri in tutte le otto posizioni possibili in accordo con la direzione che
si vuol dare al mezzo, in modo da riprodurre con la levetta le traiettorie
di curvoni e chicane, in atteggiamento a ben vedere non dissimile da quello
con cui le manine unte di noi decenni maneggiavano la suddetta Tyrrell
esagommata in miniatura.
Sembra un pastrocchio, nevvero? Ma una volta che se ne siano comprese le
meccaniche, questa formula macchinina regala palpitazioni e soddisfazioni in
forma di passaggi sul cordolo a tavoletta, tagli di chicane sul prato
con guadagno di cinque posizioni e vittorie con sorpasso al fotofinish; in
breve tempo si completerà con discreti piazzamenti la prima tornata sui
quattro tracciati disponibili in classe F3000 per passare alla classe regina
come da titolo, dove la sfida si fa dura: le vetture arrivano a oltre 400
km/h (sic) con la pista che si muove sotto di esse in scrolling a velocità
sostenuta, i tempi di reazione si riducono sensibilmente e si dovrà imparare
a dosare il macchinoso sistema di accelerazione per pennellare al meglio le
curve. Oltre a padroneggiare la guida, si tengano d’occhio gli indicatori di
tenuta di pneumatici e corpo macchina in modo da passare dai box prima di
finire appiedati o peggio con la monoposto ribaltata in fiamme e il pilotino
che fugge via; c’è poi il pazzo che attraversa la strada e soprattutto i
temibili avversari che hanno la tendenza a venirci addosso: ogni contatto
con essi provoca una perdita di controllo che spesso risulta fatale a causa
della difficoltà di rimettersi in traiettoria, insita nel sistema di
direzionamento, nonché, e questa è nota dolente, del non così sporadico bug
che, al contatto con una barriera, ci teletrasporterà in un altra parte
della pista o addirittura in un altro circuito, compromettendo la partita in
modo irreversibile.
È un giochetto spiazzante, come detto. Così poco rifinito ma intriso di
classe e chicche assortite, la manovrabilità insensata ma padroneggiabile,
l’indubbia tensione agonistica frustrata dalla tecnica zoppicante. Non è
semplice trasmetterne le qualità a qualcuno nato con Playstation. Magari
chissà, dopo aver letto questo pezzo ti viene voglia di farti un giro col
MAME (nb: dotati quantomeno di un arcade stick) e poi pensi «ma che è sta
cosa ma di che cianciano questi» e stacchi dopo venti secondi. Ci vuole
cultura, che non vuol dire citare Quarto Potere uh-uh, ma essere archeologi,
malinconici, consapevoli che negli anni ’80 i pionieri andavano per
tentativi, ché se Capcom fa un racer non pensi alla tecnica. Per mollare le
duecentolire basta il fattore M.