GOLDEN AXE di @Luca
Abiusi
Il culto per
Golden Axe vuol essere argomento serio e non tanto il residuo delle
sottoculture del retrogamer, non una mera ricorrenza in quanto Golden Axe è
l’opera fantasy più riconducibile a madre Sega,
il videogioco grazie a cui il genere spada e fantasia viene
esportato anche sui monitor delle sale giochi dopo avere incassata la sua
legittimazione al cinema, passando per John Milius e annesse muscolature.
L’impatto, nell’Ottantanove, è dirompente quanto un Final
Fight sul luogo del contesto,
per questo ipertrofico raccontare di eroi leggendari che traversano villaggi e combattono
le armate delle tenebre a suon di fendenti fracassanti corazza, spaccanti ossa.
Ma però Golden Axe evolve di suo circa sul vituperato meccanismo del picchiaduro a scorrimento,
desemplificandone le meccaniche, e diventando questione per
utenze aristocratiche capaci di giostrare con le armi e in uguale misura di lanciare
sortilegi; pur senza che si affrancasse nell’Ottantanove della infrastruttura
alla Dungeons & Dragons, il videogioco riesce
a inventarsi una serie di sequenze, e di momenti catartici. Capcom si mise a
piangere per un po’. Ma avrebbe anch’essa impugnato le armi, di lì a breve.
Si mettono insieme istrioni viventi del
calibro Ax Battler (il barbaro), Tyris Flare
(l’amazzone) e Gilius Thunderhead (il nano) per
determinare compagnia trafficante in gladio e sortilegi il cui potenziale
sia classato sulla base del rapporto tra
potere d’attacco
all’arma bianca e qualità dei malefici scagliabili in blocco; quindi
la violenza bruta del nano vuole rendere appena discrete le sue facoltà alchemiche
lì dove il barbaro, a fronte di una smodata propensione alla distruzione,
risulterà ulteriormente
penalizzato, se non mortificato difronte alla ragazza, la quale ostenta lavoro
di
negromanzia a largo spettro, ciò nondimeno accusando debolezze a tiro di spada.
Si propugna variazione: i protagonisti ci danno dentro con l’acciaio ma
possono anche montare in sella a creature o bipedi altri portanti becco, usufruendo
al bisogno delle loro abilità nel momento che il drago sputafuoco mette
agevolmente al tappeto chiunque gli si appresti, oppure quando l’altro essere pennuto sferra un micidiale colpo di coda
a spazzamento. Si caldeggia solidità: attraverso una necessaria fase di
apprendimento si sarà presto in grado di cimentarsi e conseguire risultati
altresì in singolo, per gli innovativi metodi di schermaglia frontale, già
che si agisce di dashing come che di spallate a rincorsa, e diventa
possibile recapitare al suolo più di un opponente a misura di timing
e colpo di destrezza. Le prese a contatto e a proiezione portate dalla
Capcom vengono qui a mancare. Tuttavia, si realizza uguale la gravità del
combattimento, allora che si intercede in favore di spettacolarità visuali e
coreografie.
Il sistema di performazione delle magie viene subordinato a un
contatore a segmenti di tipo scalare. Per cui maggiore è il numero di
pozioni raccolte, maggiore risulterà il danno inflitto. L’incantesimo in sé
è pirotecnico. Restituisce a mestiere l’avvicinamento all’ultima
scatenazione, come nel caso dello stadio magico del guerriero femmina
visualizzante iniziali polveri esplosive prima di evolvere a spirito infuocato,
e poi di nuovo terminare in un drago occupante il raster per esteso. Il
compartimento estetico vuol sorprendere per questo fondale in playfield
vertiginevole. La testa dell’aquila divenne base per un disegno a tema da
portare a Educazione Artistica, verso il 1990, dietro ricalco di uno screen
che avevamo visto su Zzap!, e ci sono gli abitanti del villaggio in fuga, i
folletti. Si realizza il pathos. Si vuole andare avanti. Il suono genera musiche di
mitologia e canti ai quadri interlocutori che non si possono dimenticare;
l’acustica degli effetti, parimenti, riproduce la scherma del duello.
E fa quello che deve fare. Golden Axe è dunque un picchiaduro a scorrimento
basico. Lui inizia questa dottrina di iconografie fantasy che si sarebbero
ripetute in un intero sottogenere di beat ’em up, e rende le
dinamiche della multiconversione a istituzione, e si dovrebbe tessere le
lodi del port Megadrive – possedeva livelli inediti, e il più riuscito senza
dubbio – e del miracoloso riversamento per il Commodore 64 sviluppato dalla
Probe. Del resto, per misurare l’effettiva influenza di un videogioco arcade è
sufficiente guardare al numero di adattamenti domestici che quest’ultimo ha saputo
negli anni generare.
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