RASTAN SAGA di @Luca
Abiusi
Quando eravamo Rastan il mondo era
diverso. Ci fecero eleggere il verbo del capitalismo e tutti dovevano essere
ricchi, altrimenti a scuola dicevano che eri povero e indegno di guidare una
Ferrari. Notevoli, gli anni Ottanta, che non si manca
di rivalutare alla prima occasione utile ancor di più quando si affronta il tema dei
videogiochi. Nello scenario di fine decennio si ebbe un secondo illuminismo, dopo i fasti
di Super Mario Bros., che grossomodo direzionava verso la realizzazione di
alternative adulte del gioco a piattaforme tutto zucchero e caramelle, nella sala giochi
dei dodicenni che ambivano a esser grandi, che in cameretta avevano appesi i poster di
Rocky
e Conan Il Barbaro. In Rastan si sarebbe impugnata la spada per difendere chissà
qual regnante o quale principessa, ed era bastato l’incipit a definire lo stato di
sudditanza verso le estetiche evolute, l’orizzonte viola. Le collisioni rese al millimetro
non sembrano essere un problema, per noi che a Rastan ci passavamo l’intero pomeriggio
memorizzando la posizione di ogni quadro, di ogni mostro, mossi dalla ossessione di chi
vuole vedere il livello successivo, arrivare al boss. Costi quel che costi.
Il cuore pulsante sulla base del display segna il livello
di energia, aumentando di frequenza fino a divenire tachicardico nel momento di estrema
difficoltà, prima che morte sopraggiunga. Tre vite come sempre, come legge. Con una buona
dose di impegno non è poi complicato superare i primi due livelli. Le insidie si
manifestano dal terzo in poi, coi mostri volanti che attaccano da ogni dove, ma nulla è
impossibile. Rastan Saga procede dritto verso lo stato di assuefazione, dice al giocatore
di apprestarsi e di abbandonar la vita mondana in favore del meticoloso studio del codice
sorgente in firma Taito, ché dopo un po’ al posto degli sprite e degli sfondi si
comincia a visualizzare una serie di zero e di uno e si addentra il programma al punto da
abbandonare il senso della realtà e cominciare a vagare per le sale armati di spada.
Rastan Saga è il salto da effettuare col goniometro. Inammissibile improvvisarsi Tarzan,
in prossimità delle funi, se prima non si è calcolato il tempo del pendolo e il connesso
spostamento dei pipistrelli, quelli fastidiosi che bisogna colpire pieni, in anticipo.
Gestapo, Rastan Saga. Addensa nemici. Le routine di intelligenza artificiale,
approssimative, fanno sì che la struttura a scorrimento riversi vie di fuga nemmanco come
restituzione del tributo reso in gettoni, e anzi Taito aggiunge, rincara fornendo
potenziamenti d’energia su cui è bene sorvolare da quanto sono stringati, minimi. Ma è
anche vero che Taito dispone del rinforzo delle armi pesanti, le asce a lungo raggio, le
palle chiodate, la spada infuocata che è opportuno di non mancare, se non si vuole finire
accerchiati, dopo il precipizio.
Del resto il platform game della Taito la sua scalata verso
il cult generazionale la consuma attraverso le suggestioni visive. Esemplare, in
proposito, l’entrata in scena del protagonista, col cielo infestato di nubi sullo sfondo e
le formazioni montuose in parallasse. Lo spazio di interazione è illuminato da un disegno
bidimensionale che mira a creare il momento epico – il balzo delle funi col fuoco
sottostante, le scivolate diagonali sul mare di lava, il ponte ad arco prima del maniero
–
e che ancora porti la azione a fondersi con le scenografie. Il gameplay, in Rastan, si
determina sulla affermazione della sequenza, si realizza sul principio della evocazione
dell’universo immaginifico e non sa piegarsi al rapido appagamento proprio per il discorso
della persistenza delle creature a due teste e i re maledetti che brandiscono lance
triformi, per la questione della stimolazione dell’ego, una volta trafitti; il sonoro, nel
suo vigore avventuroso, sembra sottostare a questa visione iperestetica del fantasy
game fino a restituire le cadenze del barbaro in forma di perentorie orchestre
d’archi leggendari, su cui esaltarsi, mentre si soffre, prima dell’inevitabile
Game Over.
Thalion manovrerà a piene mani in codesta fusione di suoni e disegni d’alta bidimensione,
con
Lionheart,
a rinverdire il meccanismo delle spade e delle grafiche di straniazione, per conferire
importanza al lavoro ornamentale profferto dalla Taito cattiva, non quella di
Bubble
Bobble, non quella di Rainbow Islands. Ma colei che, in un
certo senso, avrebbe innescato la tradizione del videogioco arcade ossessivo
e poi consegnato quel che vi restava a Data East, agli inizi del Novanta. La
storia recente –
Taito Memories
Joukan – dice che Rastan Saga non è ancora in età di pensionamento.
|
|