BLACK TIGER di @Luca
Abiusi
Anche se filtrato
attraverso i sedici colori della sua controparte Commodore 64, il videogioco
Black Tiger conquistava per atmosfere mistiche, e l’accompagnamento musicale suggestivo che, in effetti,
l’otto bit suonava
in modo virtuoso. Tempo dopo si avvistò un cabinet portante il medesimo
nome, e si rimase oltremodo impressionati dalle grafiche, dalle animazioni che
miravano alla ridimensione della conversione edizione cassetta mezz’ora prima
consumante testine di registratori in tinta avorio; ci si incollò al cassone per
le seguenti settimane in ragione delle grandi atmosfere, dove la fiaba fantasy e
il racconto d’avventura formato adolescenziale si alternavano a formare
il contesto visuale assai rivendicabile, quindi generante a raster una Capcom
che affermasse le coordinate del genere a lei più prossimo; Black Tiger è azione
(immaginazione) a livello unicellulare.
Salta, spara, va su, uccide, mette scheletrame, mette nemico tipo orco, tipo
demone, tipo drago e dice
al giuocatore di procedere dritto in direzione soluzione finale, ma senza
fare abuso di gettoni extra. Se no è male.
Nel 1987, prima delle schede CPS, bisognava lavorare con
quel che c’era. Ma poi a Capcom bastava largamente codesto derivato Z80 per disegnare, e
fa nulla se si sacrifica il parallasse. Vi è la sostanza a rendere la visione, le
visioni. Black Tiger è arcade che può condizionare il mercato a livello
umanistico ancor prima di capisaldi quali Strider e
Ghouls’n Ghosts
grazie all’idea preliminare del negozio che possibilmente scava il solco fra la opera
Capcom – l’intera opera: i chioschi ambulanti sarebbero poi ricomparsi in
Forgotten
Worlds e Mega Twins – e le produzioni da sala del rispondente periodo. Si
può acquistare armi, magie o pozioni guaritrici. Poi il fatto delle collisioni un po’
rigide è secondario sulla via della suzione, sicché vien figurandosi
indubbio l’oggetto dell’arte delle costruzioni in pixel delle caverne, dei
nemici – tutti egregiamente animati – e dei mostri di fine livello.
L’hardware non è potentissimo eppure le estetiche di Black Tiger conquistano
strati d’elevato dettaglio in ossequio
a cose
precedenti come
Ghosts’n Goblins. Si ritiene per
questo clamorosa l’esclusione del
titolo dalle raccolte Capcom Generations dei trentadue bit, per quanto lo si
sarebbe visto comparire, anche se solo molti anni dopo, nella mirabile
Capcom
Classics Collection Vol. 2.
Fantasticherie e stereotipi (che
a quei tempi non erano completamente tali, pensandoci) che funzionano, in
Black Tiger, questo platformista che disegna accurato una struttura di linee
e patterns gravando il fattore misticismo e aggravando la prosecuzione al
salto per sobillare il camminamento. L’unico limite di manipolazione
addossabile alla opera Capcom è deriva di un sistema arcade che non prevede
errori, visto che deprivati del potenziamento dell’arma si resta alla mercé
del nemico e si muore, pressoché sempre. Ma poi si guarda all’anno di
realizzazione e si conclude che è già tanto se Capcom concede le tre vite.
Urge incensare la composizione sonora, che si identifica nel solenne tema
portante, centrato nelle cadenze rudimentali, barbariche. Un alone di
mistero accompagna questa partitura ricca di echi, di tonalità distorte che
si sarebbero impresse nella nostra memoria. Il classicismo, anche ludico, di
Black Tiger, è funzionale agli elementi estetico-musicali del gioco a
piattaforme in bidimensione da Capcom stessa istituiti, che si mischiano a
questa intessitura avventurosa dall’andamento verticalizzato, a spuntoni sui
quali ci si erge possenti a distruggimento. L’ostilità di Black Tiger,
nell’Ottantasette, non è cosa che limita il divertimento. Al contrario è un
qualcosa che segna il percorso di ogni potenziale consumatore di oggetti in
due dimensioni, il quale vive per realizzare la masochistica idea di finire col credito. Essere o
Game Over. Questo era il problema, negli anni Ottanta.
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