ARGOS NO SENSHI: Legendary Warrior di @Luca
Abiusi
Arriva possente l’ennesimo coin-op
realizzato in Giappone, sviluppato interamente da Tecmo, fautore di grafiche dallo stile
eccentrico. Davanti un percorso a scrolling rigorosamente orizzontale che
racconta di temibili
creature e atti di notevole mitologia Rygar deve armeggiare ed essere un dio. Sua abilità
una letale lama sferica che si allunga a far strage di mostri, benché da tradizione
Nintendo il nostro potrà atterrare sul capo degli stessi, per procurar loro stordimento
e, salvo imprevisti, cagionarne la dipartita. Il sistema di gioco è quindi apparentemente
classico per quanto ricettivo in termini di intuizioni accessorie (il Diskarmor...)
che così accessorie non sono se poi Tecmo, con Argos No Senshi (da titolo giapponese),
realizza il suo apice videoludico degli anni Ottanta. E fu possibilmente il largo
riscontro ottenuto in arcade a gettare le basi per la futura consacrazione della software
house, che oggi non sarà influente quanto Capcom ma che comunque può concedersi il lusso
di celebrare il mito in
The
Legendary Adventure, versante PlayStation 2.
La estetica del videogioco Rygar procura
colori e illustrazioni virtuosi, ci sono le animazioni degli uccelli giganti
che caricano con gli artigli, e tali specie di cinghiali muniti di corna che
sembra che sono scemi ma che in realtà, beh in effetti in realtà niente,
restano scemi per tutta la durata del gioco. Da antologia la sequenza di
Game Over in cui si assiste all’avvento della
morte che cala con la falce e che afferra Rygar portandoselo al di là dello
schermo con fior di musichetta funebre di accompagnamento. L’orizzonte è
profondo. Elementi d’ispirazione fantasy
spalmati su diversi strati di playfield trasferiscono atmosfere di pianure
sterminate bagnate da laghi e solcate da fiumi, e di catene montuose di
lontananza a sovrastare i cieli, e poi c’è questo notevolissimo quarto quadro
dove che si vede il tramonto che oscura lo sfondo, a esaltare le silhouette di protagonista e nemici,
per una realizzazione tecnica che tiene ben pochi rivali, in pieno Ottantasei, appena un anno dopo
Ghosts’n
Goblins e qualche mese prima di Black Tiger, che pure col suo character
design di sfarzo e fantasie avrebbe faticato a replicare i qui presenti
strati differenziali bidimensionali. Poi giunse
Rastan e vabbè, non si poteva essere
imperatori per
sempre, eppure alla fine il cabinet di Rygar continuò a girare per le sale
fino al Novanta almeno, e ciò dice abbastanza sull’attrazione che il
mito-eroe ancora sapeva esercitare tra i cultori astanti, quando il platform
game a singolo giocatore stava per passare di moda.
È gratificante vestire le armature dell’eroe
Rygar per via del super salto
controllabile in volo non che in ragione di questo sistema di attacco dove
che si agisce in destrezza via spazzamento frontale, o attraverso
infilzatura verticale, in caso che ai mostri venisse di arrivare dall’alto;
si sente l’ostilità dei
nemici-zanzara, verso gli ultimi schermi, e il discorso degli amuleti e delle connesse
facoltà extra cui si attinge in produzione di barriere, prolungamenti del diskarmor, non
può che palesare le residue rigidità del game design punitivo degli
arcade Ottanta nei casi di improvviso trapasso,
dacché l’upgrade acquisito andrà contestualmente perduto. Ci si deve
comunque aggrappare a questa Tecmo preliminare, evidentemente ancora
acerba, e addentrare il pattern, e imparare a non morire per un arco temporale
abbastanza prolungato affinché la mansione dell’annullamento dello schermo diventi
sistemica fino al punto da definire lo schema e stabilire il record. Diciamo che per essere un
platformista della vecchia scuola, Rygar sa il fatto suo in termini di assuefazione
indotta, che a voler dire, si era e si sarebbe visto di peggio.
Rolling Thunder di
Namco altroché se era bastardo, per non dover parlare di una pietra come
Shinobi,
di un mattone qual era Trojan che ti arrivava
tra testa e collo. No, lo
scorritore della Tecmo il suo motivo lo ghermisce traversando lo strato
della fascinazione, imponendo destro la struttura al balzo ma anche
disponendo presto il culto per le visuali, ché è grazie alle geografie
intrise di rossi, verdi e blu che Rygar ottiene la sua unicità, a metà anni Ottanta, lì
dove per schiavizzare era sufficiente mostrare, dare alle utenze quanto non
si era ancora veduto sul pezzo delle grafiche. Dei disegni.
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