GHOSTS’N GOBLINS di @Luca
Abiusi
Allora
il fuoco è l’arma più inutile: lenta, raggio di azione limitato, basso livello
di precisione. Manca bersagli distanti due pixel. Capcom vi optò per farti
soffrire. Provocare fastidio. Ghosts’n
Goblins è quindi ostile. O quantomeno lo è nelle fasi iniziali, nelle prime trenta
partite di sicuro, fino a che non si accosta il gameplay chiuso al millimetro. Concentrico.
Irrefutabile. L’istituzione. Procombere viene naturale quanto abbattere uno zombie girato
di spalle, che ignora gli accessi alle scale sottostanti; poi sopravviene il demone,
l’uccello del malaugurio che sembra anticipare la traiettoria delle lance, anche se poi si
realizza che bisognava avvicinarsi e colpire indietreggiando. Funziona così, con Ghosts’n
Goblins: bisogna aggirare la cpu. Sicché interviene la tomba del bonus, che centrata
ripetutamente rifornisce di punteggio, che poi serve a fare scattare la tanto sospirata
vita extra, ché è veramente dura ricavare qualcosa dalle rigide meccaniche platform
della Capcom ottantesca e barbarica. Interessante il quadro dei ghiacci, coi pipistrelli che ti succhiano
l’anima, e gli orchi che ti seguono passo passo e che si deve
infilzare bruciando la superficie dei tasti.
Ghosts’n Goblins è una odissea lacerante. Ti consuma
dentro. Sfida il tuo esser cavaliere attraverso l’inganno, a mezzo di atroci
pattern che stroncano sul nascere le ambizioni di chi improvvisa, di chi «mi faccio
giusto una partita, visto che mi trovo». Sì, certo. Eppure si lascia interagire e si può
finire, dacché approdo di un level design che per quanto schematico può
sembrare regge il coefficiente della sfida, realizza l’atto del saltare e combattere
come forma di consumazione geografica dello schermo, apogeo di meccaniche arcade che
Capcom commuta a forma di dipendenza. Il premio è la visione del mistero, un antro di
visioni da incubo che non s’era mai visto, in quei tempi preliminari, come figurazione
pressoché blasfema di icone e oggetti sacri. Si sguazza nella letteratura popolare delle fiabe
per descrivere un universo che addentrasse il fantasioso giostrare,
il fantasticare di adolescenze che pure sature del superficialismo degli anni Ottanta si
conquistano il privilegio di brandire armi e portare giustizia. Il gioco è Arthur.
L’istrione in armatura che, se colpito, resta in boxer. Ghosts’n Goblins è l’arte
di una
messa in scena che sa
dispensare situazioni di ironia, di fantasmi e colori intensi.
Nel 1985 si era tutti quanti suscettibili al
magnetismo delle radiazioni degli schermi che visualizzavano le foreste.
Dovevamo inoltrarci. Sopravvivere ai demoni. Arrivare al punto dei palazzi
di marmo per sentire il tizio esperto tra la folla retrostante, quello le
cui gesta eroiche venivano tramandate di sala giochi in sala giochi dai
cantastorie, prestamente dire a un altro «guardalo, ora muore, nessuno
sopravvive al balzo della fede» e fargliela vedere. Mostrargli Dio volendo
tutto il Nostro valore. Prima di fallire il salto, e mestamente cadere. Ma anche nell’atto del soccombere,
lieve era il ritornare al Nostro maniacale scalare di vette insormontabili, come
principio di vita. Di una nuova vita. Da un microprocessore Z80 non potevamo certo aspettarci un
suono di orchestra, ma non si disdegnava la musica tenebrosa, che un po’ distorceva ma che ci
trasmetteva le atmosfere dell’incubo. Un suono che alle volte non potevamo neppure udire
tanto era il fracasso, ma che nei pomeriggi bui, quando il bar era semideserto, si poteva
ascoltare anche negli effetti: colpivamo qualcosa che, finalmente, produceva rumore. Per
il resto ogni tanto spuntava un monte sul fondale, con un castello sulla cima, lo stesso
che probabilmente avremmo dovuto espugnare. Molto spesso comparivano mostri anche a metà
livello, mentre i guardiani si facevano abbattere attraverso schemi assimilati settimane
prima, a scheda appena montata, ché in precedenza quel cassone era occupato da
Track & Field. Ma questa è un’altra
storia.
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