WILLOW di @Luca
Abiusi
Lucasfilm affidò a Ron Howard la
direzione del film “Willow”, un polpettone fantasy dove
c’erano le magie,
i draghi e i nani che venne anche presentato in anteprima al quarantunesimo Festival di
Cannes, fuori concorso. E sembrava avere un buon potenziale, visto che parte della critica
ebbe a parlare discretamente dei suoi effetti speciali già evoluti, nella era del
pre-digitale, e delle sue atmosfere medievali brillanti quanto l’interpretazione di Val
Kilmer, che poi avrebbe vinto l’Hugo Award. Uscito in sala il film si rivelò un flop
in sede di incassi, però alla Capcom ne avevano bene appresa la riconvertibilità in videogioco,
ché già pensava Capcom a una struttura arcade del tipo avventura bidimensionale a
singolo giocatore alla Ghouls’n Ghosts, anche se poi vi avrebbero
aggiunto il secondo giocatore. E così Willow divenne un action game dinamico con
le monetine da spendere in upgrade dentro appositi negozi di negromanti erranti, con le
piattaforme che potevano essere raggiunte in arrampicata, à la
Prince of Persia,
e un beam inferiore messo per diversificare un po’, per quanto il platformista
ostentasse idee evidentemente riciclate dal retaggio di genere.
Il titolo ripercorre piuttosto fedelmente gli
itinerari della pellicola, con le dovute e inevitabili limitazioni, mantenendone
inalterato il feeling fiabesco: i personaggi così come gli ambienti sono diretta
figurazione delle riuscite scenografie e quindi in questo ristretto visus
in due dimensioni abbiamo la fedele riproduzione in pixel dei protagonisti –
il nano e il cavaliere, che sono i due pupazzi impersonabili – già dotati di
caratteristiche adeguate alle loro propensioni (e dimensioni). Quindi il
multiplayer consente di realizzare avventura di simbiosi discreta dall’inizio;
viene introdotto un fattore cooperazione che si
rivela assai riuscito all’atto dell’abbattimento dei mostri. Finalmente Capcom introduce
il co-op al di fuori del pestaduro, e sembra cavarsela piuttosto bene in seno al
ribilanciamento del gameplay a singolo attore, nel quale in ogni caso si avrà modo di
impersonare, in alternanza, entrambi gli eroi. Il mestiere della software house nipponica
è riconoscibile infiltrando la massa di gioco prodotta nel medio periodo di interazione,
quando comincia a subentrare la frustrazione e i nemici cominciano a divenire dispettosi
ma anche quando, nonostante la massa, si realizza di dover restare incollati al videogioco
fino a che fine non sopraggiunga.
Come accaduto per il film, una volta in sala
(giochi) Willow venne accolto tiepidamente. Eppure non ci è difficile ricordare una
versione
personal computer di Willow, prodotta nel 1988 e realizzata da Mindscape, che
non c’entra assolutamente nulla con l’edizione Capcom ma che di sicuro, quantomeno nel
Vecchio Continente, vendette più del coin-op. Eppure il nostro sembra posseder
nulla in meno di un Black Tiger o un
Ghosts’n Goblins o un
Trojan,
che di certo non possedevano il bilanciamento del nostro, ma è forse vero che,
quando uscì, il genere avesse detto abbastanza e non vi fosse più l’aspettativa di
rivoluzione dopo averla scritta, la rivoluzione, con
Daimakaimura. Eppure il nostro
disegna grafiche di meticoloso dettaglio ed anima sontuoso le bestie, che sono grandi
e imponenti, e colora ispirato gli sfondi con pennellate di colore a mille e più
gradazioni arcobaleno, per portare rispetto alle scenografie del lungometraggio, e fa
scrollare lo scrolling in deciso scorrimento differenziale con le foreste incantate che
emergono dalle inquadrature a campo largo e gli gnomi e i cavalieri e i brutti ceffi da
affrontare spada in pugno o lanciando incantesimi a distanza. L’intero bagaglio di
stereotipi di post-letteratura di fabbricazione Capcom è messo in platea coi giusti tempi
di interazione, e anche la struttura musicale beneficia di questo artigianato di luoghi
abituali suonando, strimpellando ballate di campo, di fuochi di battaglia a rallegrare la
truppa, pure se qui si combatte al massimo in due, ma è un dato secondario. Titolo di
riuscita tradizione. Seppure destinato a scomparire dalle sale ancor prima che il
microfenomeno cinematografico esaurisse la sua verve d’essai e pur senza mai
ottenere una qualche conversione per sistemi domestici, Willow è decisamente la Capcom
che più ci sta a cuore, quella arcaica del videogioco bidimensionale classico non ancora
invischiata nel fenomeno Street Fighter II, e ancora figlia dei suoi anni
Ottanta.
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