AKUMAJOU DRACULA di @Luca
Abiusi
Immesso verso la fine del 1988, immediatamente dopo l’uscita di
Simon’s
Quest, Akumajou Dracula (Haunted Castle in versione
occidentale) viene ricordato in quanto unico
coin-op appartenente alla saga di Castlevania. Videogioco controverso, si
direbbe. Il disegno grafico vuole sterzare verso una certa desemplificazione sul lato della
corporatura degli sprite, che adesso sono notevolmente più grossi, e
sennonché la struttura di Simon’s Quest viene temporaneamente messa da parte, a
recare distanze rispetto a questo relativamente nuovo ruolismo di avventura che
avrebbero nel giro di qualche anno liquidato come "metroidvania"
(brr), per ritrovare allora la via del ruvido platformismo, datoché in Konami si
riteneva che il genere avesse ancora occasioni di incastro in mezzo ai cabinati
della Capcom e della Taito per questo meccanismo di salto e frusta
che in sala giochi poteva essere ancora un fatto inedito. Ma si rivedono gli zombie.
E con loro tutti i rimanenti elementi facenti capo alla iconografia orrorista
sdoganata nell’85 da
Makaimura.
Si sta nella cosa bidimensionale
classica. L’itinerario derealizza la deviazione di percorso e
sembra che non si debba che frustare bestiame e procedere fino al guardiano dentro a
questi sei mondi risultanti in metripixel piuttosto estesi, ma di nuovo scarnificati sul fattore level design,
dacché le variabili più rilevanti si manifestano con il dislivello occasionale,
una scalinata o un
trespolo da ricavarsi al salto per consolidare le dinamiche del genere
quanto opportunamente rendere, nelle aspettative della Konami, la
consumabilità estesa a larghe guarnigioni di bimbetti estimatori di arsenali a bassa tecnologia
tipo come bombe, boomerang, stopwatch
e croce; perverranno due ulteriori armi primarie consistenti in una palla ferrata e uno
spadone, a intenzione di variazione horror al
Rastan Saga di Taito che come risposta mainstream ai capitoli
a otto bit. Meglio che non parliamo del coefficiente di difficoltà. Ma però
ne parliamo. Il videogioco è frustrante. L’attacco simultaneo
profuso da uno zombie e uno scheletro da ambidue i lati dello schermo
e questo pipistrello qua che se non viene colpito con l’estremità della
frustra ti si è già attaccato al collo portano l’arte della memorizzazione
al suo punto di rottura.
Inoltre il metodo a singola vita
qui adottato non va affatto bene per un coin-op: benché venga ripristinata
la stringa dell’energia, la stessa che poi tende a ridursi repentinamente
dopo la minima collisione con qualcosa il videogioco, nella figura del Conte
Dracula, dice che «tre continue sono più che sufficienti, non avrai mica
creduto che ti facevo superare il secondo quadro solo perché tieni il sangue
di un plebeo ah, ah, ah...»; sorge insistente l’impulso di fare a pezzi il cabinato.
Ma ci si dà una regolata e si ritenta. C’è un mostro maledetto a forma di
serpente che espelle altri serpenti che non riusciamo a uccidere perché
bisogna saltare ripetutamente e a tempo, una cosa non adatta alla goffaggine dell’omino con la
frusta, il quale è tutto fuorché un Belmont e quindi niente. Si passa a
ghosteggost. Peccato perché gli sfondi ci era sembrato che erano belli. Le grafiche
volevano fare il verso ai B-Movie in bianco e nero di paura, e
generalmente rendere le intense sfumature cromatiche dei videogiochi potenti
della Capcom con tanto di introduzione di una sfilza di
animazioni tutte quante rifornite di un elevatissimo numero di fotogrammi
nell’atto della
intercalazione dei protagonisti e degli antagonisti. Le musichette, che in piena tradizione Konami
restituiscono in modo convincente le carpazie infestate di muschi e cadaveri, meritano
se possibile l’assolo separato. Non avremmo voluto parlare brutto del
presente Castlevania,
che rimane un titolo a piattaforme pressoché mediocre e solo potenzialmente al di sopra degli standard. Una mirata
fase di playtesting ne avrebbe in tutta probabilità esorcizzati i limiti,
seppure è anche tardi perché vi sia reso riscontro.
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