La fotografia non riguarda la fotografia. Ma il
colore. Accorre difatti per cui Akudama Drive nel raggio di duecento e rotti
minuti classe magenta proprio a punto su codesto principio di base della
manipolazione del cinema, sempre ancora presso a poco nell’ambito della
scorticatura di apparati oculari vitrei analoghi a cristallizzatori di riflessi,
questi qual medesimi stessi che pare che vengano riconfigurati a discernitori
della saturabilità delle metadimensioni profuse, dove che loro transitano a rullo di solvente rispetto ai contorni, quanto alle sorgive
artificiali della
luce. Akudama Drive è anime visualmente designato alla sperimentazione.
Si dà benemerito lustro alla ricerca posizionale ora che a prendere il posto di
quella dinamica, in certuni luoghi a cui restituire i primi
quadri all’altezza della circonferenza vita, dopo ai muscoli quadricipiti
femorali che s’ingrassano un poco a muzzo di sotto a un busto che è quasi come a
Strider Hiryu, ché dentro al presente anime dello Studio Pierrot
non a scherzo si riscuotono le atmosfere situazionali del videogame abitante gli
’80.
Tale insospettabile regista giapponese che porta
il nome di Tomohisa Taguchi dirige un facsimile di videoclip. Specie che
stantevi un sincerissimo sovvenzionamento di sanguinolenze flash, a dòsso
a un determinato quoziente di ravvicinamenti motociclistici a incarico di
scariche superenergetiche Tesla, e si cerca oltre tutto di mettere a fuoco le
meglio meritevoli estremità degli individui, per uso distaccate dagli individui,
adocchiabili a certe distanze, al netto di un lavoro di individuamento anatomico
subbiettivo cui riesce di captare l’attenzione di esseri umani già più che
intontiti dai vestimenti sbarazzini della pupazza detta “truffatrice”. La storia
è alquanto un pretesto. Nonostante che si prova a reprovare a giro di boa i dispotismi di apparati non
tanto futuristici, nella
iperbole di questi “esecutori” depositari di giustizia e dispensatori di morte, lì
sul posto, niente processo perché in Giappone se ti dicono che sei un Akudama,
sei un Akudama. Rotolano teste. Ci sta dottoressa psicopatica che dice che deve
umiliare gli uomini. Scrutiamo ironismo. Persino nella vocalizzazione italiana, ché si
deve abbastanza plaudire le scelte degli attori, accurate, attinenti ai ruoli.
Beh sì, lo script rimane aggiustabile,
ancora che la struttura del dialogo debba stare incastrata in una ortografia
incisa a questo modo da storyboard e si consegni a un lato di
prevedibilità, in ordine a quando lo stereotipo d’immancabili caratterismi waifu
si palesa o in merito a ’sti riferimenti
cyberpunk un po’ derivativi, che d’altro luogo adempiono al mandato unicromatista di
ricreazione di un dato perimetro di proiezioni e gigantografie
reclamistiche da ologramma, dispositivi a spettro verde che compensano la bassa
frequenza
del chiarore del giorno; tutto sommato stiamo a confabulare di una cosa
anime di libera consumanza, ma che però tuttavia sa in quale forma
monopolizzare il Nostro tempo nel momento che contempera una specie di cosmetica
che sai di non potere riconoscere in alcuna ulteriore pellicola in cui si
trovano le animazioni e i gatti, a rimanere di accordo con la egocentrissima
disegnatura delle persone che ha messo su schermo Hideko Yamauchi, già a dovere
addestrata dai Professori là dove che le domandarono se poteva realizzare i
fotogrammi chiave per Akira, Venus Wars, God Mars, Megazone 23. Leda. Akudama
Drive è questa sua manesca fantascienza di eroismi e controeroismi, di
caratteristi di fortuna e invidiabili autocisterne di plasma che pure anche a
nuotarci in mezzo non vi trovi evidenze di argomenti altri, eccetto un declarato
deposito di autolatria che tende a forza a riformarsi a elemento lisergico
integrante.