Sovviene
visibile in Ghost in the Shell questa brama di dogmatismo apocrifo, che vorrebbe essere di postumanismo e stati di opalescenza, oltre che
di liquefamento dei tessuti cellulari, così di consentire a presso e di
controluce la stimolatura di un qual simbolismo da decompressione – della
struttura bionica e del “ghost” nel residuo specchio, sequenza centrale del film
– e scalfitura metafisica, sulle pareti del museo universale come radice del
nuovo albero della creazione, a corrispondenza
dell’epilogo; Masamune Shirow avrebbe fatto sapere che non era esattamente
quel che si aspettava dall’anime, ma del resto deve averla pensata allo stesso
modo la Takahashi,
nell’84, giusto appena varcate le dimensioni di
Urusei Yatsura:
Beautiful Dreamer. Nel Ghost in the Shell di Mamoru Oshii la
declassificazione della letteratura gibsoniana si dichiara secondo il
superamento della linea distanziale della carne; il prossimo ciclo
dell’evoluzione, sicché, potrebbe quindi consistere nell’etere sintetico della
comunicazione globale, e determinarsi a flusso autocosciente in grado di
travalicare lo spazio.
Poi la fluenza. Dell’animazione a
tempera,
anche se onestamente spetta alla prosa illuminante, angolare, la
destituzione del lungometraggio di settore nonché l’accosto, di rimando, alle teorie esistenzialiste di Kierkegaard, nel nome della “libera scelta”
e sulla scorta dello scientismo selettivo, acceleranti di un
profilo genetico “superiore” che non sia congenito ma bensì composito
e predisposto all’incubazione del soffio vitale;
affrancatosi del suo involucro, l’uomo potrà così diventare onnisciente (e onnipresente).
Grava per cui, sul maggiore Kusanagi, la
responsabilità del passo ulteriore compiuto verso la
“supervivenza” dello spirito. E occorrerà contaminarsi a entità
prossimali procreate da un dio cibernetico e misericordioso, voce esteriore che
vuole scomporsi e in seguito diffondersi dietro un meccanismo di catalisi fulminante, per avvicinare
mediante-ibrido l’utopia (biblica) del gene
sempiterno: tutta la parte centrale dispiegante il manifesto del “burattinaio”,
che indurrebbe una digressione parallela su intricate cospirazioni
fantapolitiche – e che Oshii avrebbe incaricato a
Jin-Roh: Uomini e lupi
– succede al poliziesco dei fucili a calibratura automatica e le
mimetizzazioni termo-ottiche con aggregati slow motion da guardarsi
due o tre volte, alfine indulgendo alle sorgenti estetiche di Okiura (Akira,
Metropolis, Patlabor e lo stesso Jin-Roh) a fluidificanti dell’austerità del
parlato. Il salto multivocale, necessario, è altresì di mediazione. Ci si
piega al discerinmento allorché condizionati da uno sfondo di pioggia e
grigiore, quando tutt’intorno il tempo riduce il suo corso, e le persone si
trasformano in manichini.
Accertate di
Mamoru Oshii le idiosincrasie rispetto ai cardini più ecumenistici della
civilizzazione, individuabili da che il regista si cimentava nelle
storielle surrealiste dello Studio Pierrot, servirebbe di scendere
a patti con i fondamenti del trasferimento metareferenziale, e per così dire
assumere posizioni che si prestino a
sostenere ipotizzabili nuovi contesti, macchinazioni attraverso lo schermo, riscontri teorici in
appendice dell’opera di riferimento e in qualsìa forma restituenti a quest’ultima una derivabile
rinascenza, ché l’audace contributo di Oshii al processo di traduzione si rivela nell’asporto delle
eccedenze esplicative, benché
preservando del cartaceo il causticismo e le calligrafie, tutt’altro che estranei
all’effusione delle trame del futuro pronosticabile, quanto dei suoi paradossi
sistemici consistenti nella sostituzione dei ricordi, a termine di annichilimento
delle illusioni, per una umanità che irreversibilmente abbandonasse la sua
essenza a vantaggio di duplicati in composto artificiale usa e getta, sempre di
non potersi permettere un regime di periodica manutenzione. Di Kazunori Itô –
esimio sceneggiatore per Urusei Yatsura, Orange Road e Patlabor 2: The Movie –
si promuove la sintassi. Eppure il regista propende di restarsene entro i suoi
invarcabili margini, e di risolvere per le sequenze chiave che si era conservate in ordine di apparizione
cronologica da spaccare il millisecondo in due, perché sue dovevano
performarsi le sommità, e di sua responsabilità doveva diventare il disegno
traslucido, slanciato di visuale distorcente e assolutissima verniciatura che
ridesta l’iride in situazione di estinta luminescenza, traslocando dal
bianco latte al blu notte, denudando i corpi, deturpando i corpi. Da profani
osservatori, ci si astenga. Si guardi al film identificandone il grado di separazione dai
riquadri del neo-cyberpunk, e s’incominci a preconizzare l’avvento di
classi autarchiche e ubiquescenti.