Non
che Oshii non si fosse in pregresse occasioni già prodigato a smantellare e
rimontare secondo un apparente ordine asimmetrico le interclassi delle serie
televisive più giovanili, essì che l’hikikomori
dimorante in Noi si guarderebbe a oltranza un suo inestimabile film dell’84
eppure è indubbio: Patlabor: The Movie destabilizza tuttora che si orbita
intorno al 2020, e quant’è reale Iscariota lo vedi schierarsi integerrimo a
favore di una élite di udienti politicamente addestrati, se non armati
fino ai denti, e nemmeno per nulla fanatici accatastatori di edizioni limitate
da trentamila soldi ma al limite depositari di uno scenario di caos dovuto alla
corruttibilità del mezzo antropomorfo, che si ergerà a immagine e somiglianza di un
Gundam. Arriveremmo anche a supporre che la scintilla dell’autodeterminazione
della robotica debba detonare a seguito d’istigamento di un atto naturale di
energia prevaricante, dato che i mecha sarebbero in ogni caso parte
dell’autogoverno del cosmo invece che un sottoprodotto dell’uomo, come questi
vorrebbe far credere arrogandosi potestà che spetterebbero a forze superiori.
Il Patlabor che i tizi di Headgear stavano verso la fine
degli anni ’80 trasmettendo in TV
era un
police drama pseudogovernativo dai crismi di commediola d’accompagnamento in
fascia serale, e non poteva essere il nuovo Macross visto quanto gli mancassero gli elementi di trasversalità di un esegeta
visionario qual è Oshii, che dovettero bloccare appunto perché dirigesse per loro un film all’uso del suo idioletto, normalmente
riconoscibile a distanza di centodue chilometri con tutti gli indizi di profondità di
campo e i focus dei contromovimenti eseguiti al rallentatore, in deroga
alle inquadrature di fermo soggettivo che vengono utilizzate al risparmio del
numero dei frame. Patlabor, il film, fomenta il libero arbitrio. E diventa
imperativo sottoporre agli accademici quest’attitudine al “mimetismo su licenza”
che abbiamo rilevato adesso che si ha difronte l’intera opera del regista, un
continuo innesto di sottotrame destituenti, ancorché riguardose di un modello
televisivo-comportamentale in seno ai personaggi chiave, sempre tali a stretto
livello sembiante ma iperbolici entro il quarto di girato affianco allo spettro
di Beautiful Dreamer,
capace a tutt’oggi di esercitare le costanti di questo cinema decostruito sul
periodico disinganno della trasformazione, tra robot giganti e rivoluzioni
ideologiche condotte a stregua di eserciti volanti, stormi di uccelli dagli
occhi rossi.
Si leva dagli ultimi vestiboli della civiltà una
Babele di piattaforme trasportabili sulle quali ancorare i prescelti usurpatori
dal reattore in titanio, loro sì chiamati a riscrivere la storia sotto il segno
della liberazione denominata “HOS”; nello scettico rapportarsi alla “società
industriale e il suo futuro” assai prima che Theodore Kaczynski, detto
Unabomber, rendesse il “Manifesto” sulle pagine del Washington Post, Mamoru
Oshii declinava dell’anime più
settoriale che poteva esserci l’acuto di ribellione arruolabile
contro il totalitarismo scienfitico precedente il
suicidio dell’uomo in quanto stirpe: prove tecniche di
Ghost in the Shell cui partecipa lo stesso Kazunori Itô, che senza di
Oshii non osava muovere un passo anche se lo scrittore, invero, dovette
ereditare dalla serie TV talune gerarchie relazionali nonché soddisfare certi macchiettismi a modus
di risarcimento da intestare all’otaku in forma anonima, fattore che non
gli avrebbe impedito di portarsi avanti un discorso di radicale infiltrazione dei tessuti più sistemici
del progresso tecnologico, per crearli instabili, indurli a cedere con
discrezione dietro il corsivo di chi al tempo aveva servito per Urusei Yatsura,
Magical Angel Creamy Mami e Maison Ikkoku, che lo si identifica per certo il
sinuoso tratteggio di Akemi Takada nel momento in cui scolpisce il key frame
sullo storyboard, delizia di un direttore dell’animazione che dev’essersi
trastullato non poco nei dintorni del corpo a corpo tra carcasse di robottoni in
cima alla torre, fulminea scarrellata di cinepresa con espulsione d’emergenza e
fucile ravvicinato direttamente alla testa, meglio di un vecchio western, poiché
bisognava scendere da questi robomostri e tornare a calpestare la vecchia terra,
l’unico punto fermo su cui poter edificare il proprio destino.