C'è
da convincersi che la linea del tempo è precinta, e che siamo ricorrenze di
una messinscena nella cui sceneggiatura è riportato che si dovrà nascere e
perire avvinti a un circuito infinito e costante d’inizio e di fine, per finire
di accettare di non dover essere chiamati a impersonare alcun genere di
significativa alterazione di Noi stessi: potremo improvvisare, cambiare una o
due battute, sostituire un’ambientazione con un’altra se non persino arrenderci
alla variabile dell’empatia, ma non più di questo anche qualora un brandello di
anteriori conoscenze si staccasse dalla tela dell’universo ad avvertirci di
quanto sta per succedere, la caduta che si è vista e poi dimenticata
innumerevoli volte tra i rantoli degli aeroplani che oscurano il sole, quando
decidi che non c’è via di scampo e tenace realizzi di far ciò per cui esisti; del
resto, sono i brevissimi istanti che annunciano la morte a farti sentire veramente
vivo.
Nel transigere agli “Angeli dell’inferno” di
Hughes, col quale dev’essersi misurato lo stesso Hiroshi Mori – l’artefice della
serie di romanzi cui il film si ispira – e di pari al fantasticare su scenari
che si equivalessero a uno stadio aristocratico di estemporaneità bellica, Oshii
ritrova i suoi slanci accademici, sempre sospesi tra caligine e raffiche di
cannoni armati a scarico della trance che si fosse rappresa nella fiumana di
parole pesanti – e di lettura formale – trattenute da uno script che
di abitudine si stringe sistemicamente al tessuto del dialogo. The Sky Crawlers
conduce la rievocazione del maggiore Kusanagi. La si vede adesso vestire il
grado di comandante e rimanere ciò nonostante il cyborg di
Ghost in the Shell
per funzioni e portamento, ancorché verso il genere di
“Kildren” che replica l’essere umano e non invecchia, mai, dovendo adempiere il
ruolo di martire a uso militarista come trasmettere specifiche abilità che non
confliggano la struttura del ricordo né mettano in dubbio la natura strumentale
del clone, che per conservarsi tale dovrà interdirsi a un profilo di non
cosciente astenia; il ricorsivo acume del randagio serve da
osservatore triste dell’ennesima commedia (o tragedia) di stirpi umane che
vengono oblitereate da rimpiazzi da macello iperevoluti e cadaverici, dei quali
il regista incoraggia una salvifica stringa di successione, come l’aveva preavvertita in
Innocence ipotizzando
sostenibili incroci nei termini della materia organica e fibre di materiali surrogati.
The Sky Crawlers persegue l’atto sacrificale
mediante fotorealismo. Il film si conviene un facoltoso rendering di
carlinga e fusoliera e predilige di restare al passo con gli interni
pressurizzati,
bidimensionali a discesa verticale in elusione delle formidabili manovre del “Professore”, colui che si vota a respingere la sua progenie
– i Kildren, per
l’appunto – e che suo malgrado è parte strategica del circo della ripetizione
inabrogabile cui Oshii deve confrontarsi da quando dovette iscriversi al liceo
Tomobiki, e d’accordo che viene raccolta dall’esistente soggetto la scorciatoia del
riscontro di guerra, il rituale freddo e tragico del ricambio meccanico del
cadetto se non anche laconicamente descritto il luogo in cui questi avesse
ottenuto anonima sepoltura, ma in ogni qual forma si arriverà di norma a
interagire i tormenti di chi sappiamo
Noi con i suoi assilli, e le allucinazioni e gli incubi che ne compensano il
vizio a
non riconciliare lo spazio corrente così distante dai modelli umanistici
costrittivi, non reali, relativistici che chi sappiamo Noi spinge
all’autoaffermazione per non doversi preoccupare d’iniettare a terzi alcunché se
non i getti di endorfine rilasciati in dosi considerevoli dalle orchestre al
soldo di Kenji Kawai, nello svapo del combattimento ad alta quota, ché si doveva porre rimedio alla mancanza di uno sceneggiatore al quale poter
affidare le chiavi di casa, senza nulla togliere alla rispettabile Chihiro Itô, che
però magari eccede nella prosa del sentimentalismo, alimentando di contro un
qual sentimento di misoginia che il regista avrebbe volentieri mantenuto dormiente.
Ciò nondimeno, tanto cinema esclamativo e alienante di cui si era sentito
discorrere in età prescolare, e che si sarebbe assunto per telestesia intorno
al XXI secolo non verrà intaccato dalle suggestioni filmiche circostanti:
scolpito nella pietra tale rimarrà, da qui ai cent’anni a venire.