Quel
che la Takahashi non ha mai compreso circa gli improvvisi momenti decostruttori
di Mamoru Oshii, allor che questi ebbe ultimato il secondo film cinematografico
di Urusei Yatsura, è che dovevano servire a misurare il grado di
resilienza del simbolo. La
dissacrazione, la remissione del modello umoristico e di gran parte dei tratti
retorici estraibili dalla serie TV – e nondimeno da Urusei Yatsura: Only You –
miravano a dire il vero a creare questo semantico paradosso di riequilibratura
che, allontanando il cliché delle chiassose figure commedianti, le riavvicinasse
a un significato iniziale più occulto e intimista. Nel 1984 non si poteva essere
preparati a una cosa come Beautiful Dreamer, poiché nessuno si era ancora
immaginato di potere assumere l’immutabilità del tempo, se non appunto in un
sogno che avesse radicato nel continuativo presente; l’illusione di una
immodificabile esistenza avrebbe quindi preso forma di unica verità concepibile, e il senso dell’assurdo
sarebbe stato ricacciato al di fuori del cerchio degli eletti che non vogliono
ricordare, e che intendono avventurarsi fin dentro il paese del non
so che.
Al culmine del festival studentesco risulterà che
«tutti gli altri potrebbero anche non esistere». In seguito, la definizione del
crepuscolo della civiltà, o ancor forse della umanità estromessa per osmosi dal
vaneggio di Taro Urashima – che nel palazzo del Drago era vissuto per trecento
anni terrestri – diverrà, più nichilisticamente, origine di una nuova
micro-genesi di accoliti caratteristi il cui unico disegno è di vivere per
sempre nello stato di sospensione del liceo Tomobiki, luogo in cui gravitano gli
amici insostituibili, gli unici che si vorrebbe al fianco malgrado le risse in
maschera, i martelli in testa, le occupazioni lampo con i carri armati della
Wehrmacht, le scariche di elettricità, i gatti, la gelosia rovente e gli
insegnanti pazzi perché i giorni dell’ultimo giorno di scuola (che corrispondono
all’ultimo giorno dell’adolescenza) arrivano inesorabili, inderogabili nel mondo
reale e per favore «non derubarmi di questa
incolpevole immaginazione», Oshii chiede, «in quanto nel mio sogno innocente non
vi è parametro a cui ubbidire, e posso farti diventare chiunque tu voglia»; la sagoma varcante del regista – che lo si può
intuire: è lui a osservare ripreso di schiena alla finestra – segue il balzo
metadimensionale a cinepresa mobile riservato a Shinobu, paragrafo sublime,
indimenticabile dove si vede lei che viene risucchiata in una spirale di ulteriore utopia
nel quando lo spazio si piega e il set del film propende a collassare su sé
stesso.
Salvoché di compromettersi alla zona di mezzo era
abbastanza sistematico, arrivati anzi a desiderare d’introdursi ai corridoi di
geometrie inesatte tanto per decantarne il sintomatico ingegno si detrarranno,
dalla cadenza del suono del pianoforte e di
sovrascrivibili altrui strumentazioni plurisinfoniche quanto di musicassette
j-pop di etichetta Kitty Records le matrici di un teatro visuale “assoluto”,
accentratore di qualunque minima criticità restituibile alla esplorazione degli
abissi del cinema liquido, verde-azzurro che letteralmente risucchia la
coscienza degli attori “che hanno capito” dentro a un acquario di palliative
sub-allucinazioni in cui potersi rifugiare ciclicamente, e visivamente; si
riscontra di un Kazuo Yamazaki al picco nevralgico delle sue mansioni di
character designer, per azione di rimodellatura dissettiva dei
corpi e dei volti ch’erano divenuti familiari ben prima dei passaggi televisivi,
e seppure pensi che siano sempre loro non sono loro, non veramente: sono
cresciuti, hanno lo sguardo penetrante, si abbandonano a un che di ermetismo
post-esistenziale e danno luogo a monologhi di anarcoide antiumanesimo tra le
macerie dell’antistoria degli uomini, benché il privilegio del ripopolamento del
giardino dell’Eden 2.0 competerà loro e loro soltanto, sempreché non venga
richiamato il tapiro, l’essere che aspira via i sogni. Il succedente repulisti
di questo decorso alternativo non si poteva evitare pur nell’inconscia, disperata
resistenza al disincanto messo in scena nella sequenza del risveglio, che
orchestra un interminabile incubo di aberrazioni mentali e inconfessabili
debolezze, consecuzione di episodi traumatizzanti che non potranno che
ricondurre lì dove tutto ha avuto inizio, all’alba di un nuovo giorno identico al
precedente.