Si
parla di un dispositivo, la DC Mini, col quale si scardina la mente. Poi
Cristopher Nolan se ne sarebbe appropriato per montarvi un film tutto suo,
magari un po’ meno intricato di Paprika e bisogna dire valido, in taluni suoi
risvolti dove sembrava che non ci si dovesse risvegliare mai. Tuttavia Paprika è
meglio. Abbiamo un Satoshi Kon particolarmente delirante che decide di fare il
gioco delle tre carte, una cosa di abilità manuale di vedo non vedo, lo faccio
velocemente dimodoché il giocatore-spettatore non realizza che il jack di cuori
che stava al centro lo si è abilmente incollato sotto il banco, un che di baro
non baro che bastaché non scopri le carte ti riesce di rendere credibile, poiché
conta quanto è percepito e non ciò che è, che esiste, sempreché la menzogna
che pensavi di avere orchestrato non diventi anch’essa una macchinazione.
Finzione della finzione. Che
si avrà comunque modo di confutare, dopo. E non ti riesce di tornare
indietro. Devi rimanere, nel sogno. Dovesse anche trasformarsi in un incubo
cosciente in cui vedi delle cose e ne accadono altre, e rischi di essere
investito da un camion o di precipitare dal decimo piano, avendo scambiato
l’inferriata del balcone per il cancello d’ingresso a un parco divertimenti.
Ma si necessita di sporgersi. E di usare
l’estensione DC Mini pure ignorando che il regista ne abbia disposta la connessione a cascata, che è verosimilmente questo il
punto su cui formulare un provvedimento di accusa che rimandi all’uso improprio
di tecnologie potenzialmente corrosive, e ma prima bisogna essere sicuri che il
circostante visivo corrisponda effettivamente a una illusione. Del resto Satoshi
Kon lo conosciamo bene. Le sue opere, escludendo Tokyo Godfathers, avevano
assunto l’indagine del pensiero ed è un miracolo che la
visione di Paranoia Agent non ci abbia causato danni permanenti al cervello,
altrimenti ci ritroveremmo adesso a scrivere parole scarne di cognizione e a
dire che in verità Paprika non possiede un finale, e che si rigenera in un
loop di cui Noi si è complementari artefici. Invece il Nostro io sano
bisogna di punti di riferimento reali. Richiede che vi sia un caso di omicidio
con un detective, un maggiordomo reo confesso e un capo della polizia che
dispone tutti i tasselli del puzzle
al loro posto, mica codesto assillante crimine parapsicologico dove c’è un
detective, una dottoressa con un alter ego cibernetico che si chiama Paprika e
un criminale che è capace di impiantare allucinazioni collettive da sudore freddo, tipo
una processione di giocattoli animati che prosegue in avanti verso la città, facendo
gran chiasso.
Il film è un complesso di piani
scomponibili. E mutabili in funzione dell’uso della prospettiva, a
continuare il discorso di
Millennium Actress,
che in Paprika sedimenta verso l’irrisolvibile inscatolamento dei
settori cinematografici, i quali s’inglobano escalando nel
metasogno, che sta dentro al metacinema, che sta dentro la metamorfosi della
coscienza di sé come se la domanda da porsi non sia tanto chi è chi, ma
chi si è reincarnato in cosa, a suffragio del verificarsi d’interazioni bidirezionali tra
dimensione primaria e suoi comprimari specchi, poiché il film chiaramente esonda, e
rincara invertendo l’ordine di proiettabilità dell’immagine riflessa, che
anziché cunearsi all’interno inizia a espellere i suoi vitrei frammenti
contro una obliqua zona d’ombra nella quale finzione e realtà coesistano
liberamente, ché Satoshi Kon si sente in obbligo di stralciare il meccanismo della
logica induttiva, nel momento in cui decide che il parametro di
riconoscimento dell’oggetto fisico (e filmico) altro non è che uno strumento di
ri-codificatura della luce. Il cui raggio deve veicolare paradossi
spaziodimensionali,
schizofrenie, stati vegetativi. Da che
"tutto ha
principio dalla follia”. Il disegno è sfarzoso, principesco. Pleonastico dire che character design,
trame di
pigmentazione e animazioni stiano all’estremità della tecnica in cel, e
si deve comunque riportare di una colonna sonora sintetica altrettanto
significativa.