Più
specificamente interessato alle sfumature fenomenologiche riguardo
l’attrazione dei giapponesi per le femmine che fanno le mossette che non al
fenomeno delle idol in sé, che si limiterà a riciclare per esigenze
divulgative anteriori,
Satoshi Kon, nel 1997, erige un labirinto attraverso cui poter espletare
libera facoltà di
seppuku;
gli strattoni alle fronde serviranno a procurarsi escoriazioni e dolore, e
questa luce bluastra proveniente da tergo altro non è che un crudele tentativo
di sviamento,
come a illudersi di poterlo risolvere per davvero, l’enigma della mente che ti
dice che potresti essere chi non pensavi di essere, e che vi è una vaga ipotesi
di aver creduto di vivere la vita di qualcun altro a causa di una specie di
sindrome da sdoppiamento della personalità. Ma diverrebbe quest’ultima una
conclusione sin troppo normalizzante per gli standard divulgativi/cognitivi del
regista, cui si dovrebbe conferire mandato di prelazione sulla ragione, ai suoi
occhi disutile e prevedibile quanto la linea di pensiero di quello che ha
diretto il
live action francese di City Hunter.
Il Giappone di Satoshi Kon risolve cromature ad
alto candeggio, e contrasta al massimo, dovendosi ripulire del
residuo di grigio in rapporto a figure (femminee) che debbono mettersi a fuoco quando
appena scalate dallo sfondo alla posa fotografica; l’espediente, ugualmente reso
mediante due strati di metacinema almeno e pure anche non coinvolto nell’ordine
di stretta consecuzione qual si sarebbe profilato in
Millennium Actress,
decentralizza la cinepresa fino a svuotare le attrici della loro esteriorità,
all’incirca a volerne eradicare l’essenza sul tessuto cromatico superficiale e
farne affiorare l’oscurità borderline; l’estroversione (empirica) dei corpi
schiude verso il necrotico per deformarsi a simiglianza dello stalker che
spaventoso assume il terzo fascicolo d’indagine residente nel faldone dei casi
irrisolti, ma la cosa che atterrisce, e che di fatto instilla nel cliché
settario degli anime un ritratto di cinematografia nuova è che il
maniaco, il tizio che uccide, la figura che equivale il male incarnato
sembrerebbe rispondere ai lineamenti di colui che si ferma a guardare i balletti
della pop star Mima. Lo stesso seduto al cinema in quarta fila, spostato sulla
destra dove dicono è garantita una migior visuale, e che in seguito, del film, si è
comprato il Blu-ray. Vi è un che di provocatorio sul come il regista argomenti
l’escalation dell’omicidio (e delle visioni di violenza) manovrando lo zoom
della videocamera in un ridondante meccanismo di scatole cinesi e comunque, lui
che filma, e che usa confondersi tra i passanti, resta nella cerchia dei principali
indiziati.
Il criterio di cattura del volto è scientifico.
Hanno svolto un discreto lavoro di make-up per fornire contributo alla causa
della fornicazione. Lo spostamento della camera a spalla è un trattato di
chirurgia estetica: in destrezza insinua gli spazi richiusi a inseguire il
materializzarsi di sagome trasparenti che fomentano i terrori, che sembra che
hanno messo un assassino nascosto dietro la tenda della doccia, e non si ha neppure il tempo di accusare i primi sintomi del
delirium tremens che vedi che finzione e realtà iniziano a distrarsi al punto
di potersi sovrapporre sul divisore di confine a specchio, ricorrente, con tanto
di ossequi da versare alla bibliografia di De Palma (Le due sorelle) e omaggi da
retribuire col rigore del caso a Scorsese (Taxi Driver) durante la sequenza di
chiusura da consumarsi in macchina, al caso che ci si fosse illusi d’essersi
meritati un momento di stasi a seguito del supplizio inferto e ricevuto a incarico
d’incisioni profonde, schizzi di liquido rosso ad alta velocità dappertutto e
senso d’impotenza per il fatto di non poter esibire, dall’esterno, prove
razionali che coincidessero lo script all’eversione della montatura scenica;
professionalmente irriducibile, Satoshi Kon supervisiona allo sviluppo del film
dai titoli di testa fin dove i vincoli decisionali di regista e character
designer non gli avessero negato parola – i testi di sceneggiatura, scritti
da Sadayuki Murai partendo da un soggetto di Yoshikazu Takeuchi, erano tuttavia
abbastanza validi da non necessitare di revisionamento alcuno – ma non manca
l’occasione di suggerire un campionario di rumori adulterati che in qualche
forma scomunicasse il j-pop di “Angel of Love”, occorrente invero al conflitto
dissonante tra ossessione e innocenza, schizofrenia e disilluso ritorno al
reale.