Niente niente ci si ritrova per luoghi di frontiera, a provare a desbrigarsi tra nozioni d’ingegneria aeronautica e versi di poesia campestre. In quanto che la
poetica cinematografica di
Hayao Miyazaki non è solo di autogiri ma di parole decantate,
perfettissime di fanciulleríe giusto a poco fiabesche, donzella chiusa a chiave nella torre, guidatori di Fiat 500
superpotenti, duchi conti, tesori sommersi. E sta che il
Lupin III che si vede in Cagliostro, pure lungi dal divenire il cavaliere senza
macchia adottato da una certa cinecritica tuttora bivaccante dietro alla
giostra hollywoodiana de “La città incantata”, ben si presti al taciuto atto
dell’infatuamento, nei termini di una vulnerabilità che infine si rivela, già
che Fujiko era più un discorso mentale mentre Clarisse, beh, lei ti scuote nel
profondo. La figura del ladro non è che muta: evolve. E l’idea, or ora insinuatasi,
circa che Il Castello di Cagliostro potrebbe essere il miglior film di Miyazaki
prende forza nell’eufonia del tratto iniziale, quando ti si incominciano a
illuminare gli occhi.
E sì che a rivendicare sceneggiature doveché sai che
tutti tranne che uno si opterà col vivere per sempre come minimo, e vuoi
comunque sentirtele dire dovessi anche morire ti guardi Cagliostro almeno
diverse volte consecutivamente, a mo’ di individuare in esso elementi che ti erano
scorsi per davanti ma che ti eri scordato di annotarti, datoché ci era stato
questo dato soggetto di campo totale – cui Miyazaki sarebbe ricorso in ogni
singolo suo film successivo – quanto di radure o ruderi di manieri di fine
Rinascimento, muschi, statuame riportante alla gioventude di un Lupin III che
sostiene che lì c’era già stato, nel tempo stesso in cui si oggettivizzano le
trame del ricordo e del mistero, contro di argomentature trasverse su di un che di
camera delle torture, cose di avventure, Guardie Reali, intrallazzi diplomatici
sarabande, arcivescovi, matrimoni. Lo stile trasgredente all’uso di Kazuhiko
Katō, detto Monkey Punch, deve solo che secondare Maurice Leblanc e le sue
francesità, direttamente dalle righe di “Arsène Lupin e la contessa di
Cagliostro”, ancor che poi Miyazaki se le riscriva per discrete parti, a farne
scritti personali da mettere dentro a questo nastro di opacità trasparente, bucato sulle coste, ché davvero
che Cagliostro vuol disseminare grande cinema complessivo, un contenitore di
balocchi e mirabolanti intorni.
Stiamo provando a isolare ’sto color vivo di
cartone animato sul quale hanno dato un getto di aerografo, poi che si induce un
fattore di solventi rimanenti nell’aere che sa coglierci soltanto dopoché il film si
è concluso, e sarebbe stato identico per “Nausicaä” fino a “Si alza il vento”,
una idea che non sai bene cos’è ma che c’è, un sentimento nostalgico, un voler
non fuggire via da una storia che ti riporta alle storie che ti raccontavano
quando avevi tre anni, per farti addormentare, quelle che ti facevano fare i
sogni belli dei castelli e dei re; non ce n’è: la opera di Miyazaki asserisce come nel
retro di un film di animazione non debbano esservi le animazioni appena, ma
perlomeno sottili e ulteriori implicamenti riguardo al senso del periodo
scenico, la facultà di porre a interrelazione parlato e gesto intorno al
culto delle forme gentili, mirabili di già ne “Il principe del sole - La grande
avventura di Hols”, allora che a dirigerlo avevano messo Isao Takahata. Ci
siamo appuntati la ultima frase di Zenigata. E questi suoni di fondo malinconici
che al di fuori di Cagliostro non riusciremmo a recepire, e pur vorremmo
recuperarne il vinile, precipitarci in taxi da Kihara Toshie e dirle che se per
caso non glie lo avessero detto ancora è la migliore solista mai vista, ché ci
son cose che non devono venire dal tempo malviste neppure quandochè le si è
ascoltate per la milleunesima volta, ché tal dev’essere il numero di visioni
messo insieme per Cagliostro da che si era in terza elementare, lo trasmisero
in televisione, ci sembrava che era un episodio della serie regolare ma più bello,
tantoché ci rammentiamo che ci telefonò il compagno col fiato corto per dirci di spostare su Italia 1
che ci stava Lupin con la 500: «madò sto guardando, proprio tale e quale alla
500 che ci
ha mio padre...».