Sul
motocorsismo elevato a endo, inseguenti ottantistiche macchinazze coi
fari a scomparsa, a valersi di specialissime clausole di sorvolanza dei treni
merci, bestioni da duecentosedici tonnellate per un chilometro e mezzo di
lunghezza, se non era che quel malefico del regista è più uno da carcasse, da
ferri fuorilegge classe Mustang Boss 302 super custom poi che i corretti tasti da
premersi debbono aver forma di acceleratori o grilletti in lamina d’argento, come lui dice,
ancora che sarebbe da pazzi accusare il nostro di mestieranza casoché di
capitare a tradurne in prosa la poetica e di svelarne gli impersonamenti
aritmici, che a velocità incostante si muovono alla cerca di colei che è chiamata Fujiko Mine,
ossessione animale degli uomini o immanente allegoria sulla introvabilità
dell’amore carnifero, quello sfibrante che trafigge al petto, e che
nessuno mai potrà ghermire; a questa narcisa bambola di porcellana avente non per finta
dato il latte alla “baby boom generation” viene estorta una autentica
confessione. Era nell’aria. Si capiva che le sarebbe toccato sin da
La lapide di Jigen
Daisuke, che già riclassava, rivoluzionava i ruoli.
Abbiamo notato temperatura d’estate, in replica
alle fotografie ultrarealistiche dei trascorsi due, che adesso i fondali sono al
contrario cartoline di tramonti cui abbinare scamiciati a tinta
verde-giovinezza riconoscibili da lontano. Ma se la Fujiko del quarto
filmazzo di Takeshi Koike non si presta a visibili grinze si caricherà d’altronde il peso
di quarant’anni di telenovellismo, dove si materializzava a ripulire le
casseforti di filantropi e capi di stato, ammodoché in questa ripetitura episodica ricorrente possiamo guardarla
cinghiarsi nel lume di arrensione proprio del fatalismo, per un’autocritica
presa in sacco delle sue maschere, che sfuggono al còrdo di una normalità che
non le riguarda, sì che le basta di essere la donna di cui tutti conserveranno
memoria; la menzogna di Fujiko Mine è di lei che dissimula l’innatezza dell’istinto materno
col giustificante del movente criminoso, questoché nel corso della trilogia nuova
resta su Monkey Punch quanto sempre sulla ricusazione di specifici modelli
vocabolistici televisivi che odorano di stantìo, di cose di vecchiume a vedere
che è la cinepresa a dovere fare la parte maggiore del lavoro richiesto, partendo
a carrello prepotente da dietro al corpo a stilizzarne la falcata, in una
cinemascopia di zoom lenticolare che incara la cognizione del moto da luogo
diretro a pratiche di tracimatura del bordo del frame.
Eccosì Fujiko’s Lie sembrerebbe ricucire in chiave molto
aerobica lo spionistico internazionale de L’inafferrabile (Fritz Lang, voto 8
con riserva, che ce lo dobbiamo rivedere); ci si trova subito alla presenza di
schemi situazionali tipici, se pure svolgenti una loro attrattiva quando che il
cliché rettifica di nero enigmatico e
d’incantesimo, di bestie velenose che si riscoprono capaci di empatizzare,
una volta che l’hanno vista in volto, al più tardi della resa dei conti
orchestrata in grazia di un prototipo di sniper modificato per fare i
buchi alle lastre in vetro blindatissimo, prima che agli encefali dei cristiani che
si trovassero lì penitenzianti nel raggio di tiro. L’animato dà naturale sfoggio di sé.
Riversa attenzione verso al quadro strumenti, e su prensili freschi di manicure che
zappano con un certo livello di conoscenza sulla leva del cambio, allora che l’automobile si obliqua davanti ai
miscredenti che pensavano che il terzo Lupin terzo di zio Takeshi potesse
evidenziare fisiologici sintomi di stanchezza. Macché. La regia, virile,
aggressiva, dimestica
promiscuamente tra acrobatismi che non si vedevano da centocinquant’anni, a non
far discorso dell’efferato scontro di generi a fondo di coltello e
bujutsu antico, a dir che Sion Sono – Love Exposure, Cold Fish – non è l’unico e
il solo a pronunciarsi sul globalismo delle coste del cinema, delle sue
rifinizioni, e deformature, e i suoi paradossi, non appena che ti osservi il disegno
erogeno mutilante di questo qui che è tra i superstiti dell’animazione in fogli
trasparenti. Quella che gli hanno insegnato alla Medhouse.