Non
è stato Takeshi Koike a dire che Rupan Sansei
è una saga di ladroneria bastarda, casoché qualcuno s’interrogasse sui calibri
99 millimetri o la dissolutezza, e non pensasse al tale che dapprima ne scrisse,
circa durante i libertari sessanta, lineatura scabrosa, di approssimazione a mano
armata che stilla d’intrigo, e di un sessualismo ben più serio di quello
leggero degli
special televisivi o delle serie vacanziere, escludendo “La donna
chiamata Fujiko Mine”, sofisticato inciso di lussurie. Sulla lapide di
Jigen Daisuke c’è il killer che depone i fiori. La cosa del ritmo. Della
narrativa dell’oltreoceano che ti sapeva concertare uno come Jim Thompson, da cui lo
storno dello spy movie accademico a sostegno del sistema del triplo
inganno, a mettere lo spettatore nella condizione di non ipotizzare, se non
dalle parti dove si chiude il cerchio, né prima né dopo di un distinto segmento
in cui dev’essere che si conclude tutto, tranne se non si arrivi al
controcampo del regista identificante il momento, la storia, e che agisce a dislocare
questo acerbo Lupin III nell’immediato antefatto di Cagliostro, il film dove il
ladro si riconsegna gentiluomo.
Siccome
Redline stabiliva un
precedente vincolante si è dovuto promuovere l’uso dei mitragliatori della
Settima divisione Panzer e montarne alcuni dietro al cofano delle macchine, più
o meno a non disattendere le aspettative delle persone, per quanto non
si fosse neppure mai valutato d’includere duelli che non potessero poco
poco ambire a divenire la testé corrente pietra di confronto
dell’automobilistico firmato Umberto Lenzi, nel quale, a norma
d’intensificazione del regime delle inerzie, si fissavano le cineprese sul lato
dello pneumatico anteriore destro comeché a stomacare
all’entrata della galleria illuminata di giallo, sul quando di
controsterzo i pezzi delle lamiere boomerang e gli sportelli vengono aggirati, e i
parabrezza svolazzano, al testacoda disaggregano nella piena dei proiettili
corazzati che ammazzano; il secondo film di Takeshi Koike, cinquanta minuti di
severissimo noir indipendente e dezakismo serio à la
Golgo 13 sul ruolo di una esplicitazione
grafica quantoché corpurea incide, innova le precetture del disegno animato
non originale e lo coincide credibile, il pennino nervoso, ma di carattere, del
Monkey Punch che osa sovvertire il tratto ammorbidito di Osamu Tezuka, e dare
alla luce personalità ambigue, sospette che vedresti nel retrobottega di una
lavanderia di Saint-Denis arrischiare alle carte con bande di motociclisti e
scappati di casa.
Sulla lapide di Jigen Daisuke è indicato il
diametro .357 delle cartucce Magnum in dotazione ai revolver Smith & Wesson
modello 19. La cosa della simbologia. Del contendersi l’indizio che addiviene al
districamento del rebus mortale, distorto, per il quale giuocare sulle
coordinate del tempo differito, all’anticipo de
Lo spruzzo di
sangue di Goemon Ishikawa, anch’esso trafficante con lo spazio
chiaroveggente, addopo di uno schema di triangolature che tradisse la
duplicabilità del cinema a titolo delle sue direzioni, speculari e
multiangolari, al più di raccontare di qualcosa e doverla confutare, scomponendo
gli schemi predeterminati, convogliando le grammatiche del romanzo sofisticato a
una semiosi di significazione scrupolosamente tattile, per questi fermi di
camera che indulgono sull’assemblaggio del fucile telescopico in un certo
parafiliaco ciclo di stimolazione di componenti a mezzo estensori a vite,
percussori, freni di bocca e compensatori emittenti fotogrammatura a celle
tecnicissime, in segno di strenua apologesi del tarantismo, nell’esplodenza del
vaso sanguigno e di una Fujiko scultorea e appuntita, allor che rinchiusa nella
scatola in vetro, all’impalco del tizio sadomaso appeso; il Lupin III di Takeshi
Koike, foneticamente antipodale a quello bucolico, poeticamente cavalleresco del
film di Miyazaki, impiega la semantica (e il linguaggio) di un cinema vestito di
raso, di sproporzionismo e scolpiture a schizzo, di seduzione, velocismo e
figure lisergiche per le quali condiscendere. E ritornare al mito.